Scrive Luigi Bottazzi, ex consigliere regionale reggiano della Dc, e autore del recente libro “Un’esperienza di formazione sociale e politica. I Gesuiti a Reggio Emilia”, Gianni Bizzocchi Editore.
“E’ morto a 92 anni, il primo dell’anno, Francesco Forte, un grande economista italiano, autore di moltissime pubblicazioni e collaboratore di testate nazionali, da ” Il Giorno ” al ” Giornale”, più volte ministro e parlamentare, che si definiva un liberal-socialista ma di fede convintamente cattolica.
Era amico pesponale di Padre Luigi Rosa, teologo e giurista, scrittore di “Aggiornamenti sociali”, la rivista dei gesuiti milanesi del Centro San Fedele, che impostò e poi diresse i sette anni accademici (1959-1966) della Scuola Superiore di Scienze Sociali a Reggio Emilia, al Centro Sacro Cuore di Baragalla.
E Nel libro di Luigi Bottazzi, che anche in questi ultimi anni era in cordiali rapporti con il professore di Torino, è riportato un interessante ” ricordo ” dell’amico Padre gesuita, ma anche la sua esperienza a Baragalla, di docente (in quel periodo era di attualità il tema della nazionalizzazione dell’energia elettrica e dell’ intervento dello Stato in economia).
(Qui di sotto lo scritto di Francesco Forte).
UN RICORDO SPECIALE: IL SORRISO DI PADRE ROSA
(di Francesco Forte)
Ho conosciuto padre Rosa, nei lontani anni ‘50, quando lui era studente alla facoltà di Giurisprudenza all’Università degli studi di Milano. Io vi insegnavo, scienza delle finanze e diritto finanziario, prima come supplente di Ezio Vanoni, poi come professore incaricato dopo la sua morte in Senato, ove si era recato contro le prescrizioni mediche, a difesa del pubblico bilancio. Padre Rosa, giovane sacerdote, che aveva fatto l’esame di scienza delle finanze, poco prima che io vi insegnassi, mi chiese la tesi di laurea su un tema interdisciplinare di scienza delle finanze e diritto finanziario.
Non ricordo su quale argomento, che scegliemmo insieme, egli la svolse. Ricordo però che il lavoro era acuto e profondo e, insieme, molto chiaro. Ciò, forse perché la spiegazione in termini semplici di argomenti complessi, fa parte dell’educazione culturale dei gesuiti. Rimasi molto ammirato dal lavoro svolto da padre Rosa. Poiché stavo per lasciare la mia posizione provvisoria di professore incaricato, diedi al neo laureato gesuita il mio indirizzo di casa di Milano e il mio numero di telefono, per rimanere in contatto con lui, anche dalla mia nuova posizione accademica.
Essa era quella di professore incaricato di scienza delle finanze, di statistica e di economia politica nella piccola, splendida Università di Urbino. Rimasi in corrispondenza con Padre Rosa, non ricordo su quali argomenti, sia quando mi trovavo a Urbino, sia soprattutto, quando tornavo a Milano ove risiedevo con mi moglie Carmen, non lontano dalla sede del giornale “Il Giorno”, a cui collaboravo con un editoriale quotidiano su argomenti economici di attualità.
Nel 1959 lascai l’Italia per l’Università di Virginia. La mia corrispondenza telefonica e postale con padre Rosa si interruppe. Egli, però, presumo che rimanesse in contatto con me intellettualmente, perché ne “Il Giorno” comparivano editoriali che io mandavo dagli USA. Là, ovviamente, non li potevo leggere, perché “Il Giorno” non vi arrivava.
Nel 1961, ai primi di marzo , Carmen ed io tornammo in Italia, perché io avevo vinto il concorso alla cattedra di scienza delle finanze e, contro ogni previsione, Luigi Einaudi, ex presiedente della Repubblica e professore emerito all’Università di Torino, mi aveva scelto come suo successore, alla cattedra, in grado di sviluppare la scuola scientifica einaudiana.
In quel tempo, Carmen ed io risiedevamo ancora a Milano, che avevamo lasciato provvisoriamente per gli USA, mantenendovi la nostra grande abitazione. Carmen ed io ci eravamo sposati quando ero, da poco, diventato professore a Urbino e Carmen, quando giungemmo a Milano dagli USA, nel marzo del 1961, era incinta di alcuni mesi. Appena arrivati, ebbi una telefonata di padre Rosa che si complimentava con me: aveva seguito la mia vicenda accademica, sapeva della mia cattedra prestigiosa a Torino. Mi chiedeva di fare una lezione a mia scelta, di livello accademico, su un tema importante di scienza delle finanze, nella Scuola Superiore di Scienze Sociali a cui sovrintendeva a Reggio Emilia, per una parte dei corsi in cui egli stesso faceva lezioni di taglio accademico.
Accettai con entusiasmo la proposta: era la mia prima lezione in Italia come professore titolare di una cattedra: in attesa della chiamata effettiva a Torino, che sarebbe avvenuta solo a fine settembre. Ciò perché Einaudi aveva chiesto ai colleghi torinesi di non farla né nell’ inverno, troppo rigido per lui per venire a Torino, né nella sessione estiva, per i mesi di gran caldo nella capitale piemontese, antica capitale del Regno di Italia. Einaudi, in quelle stagioni, abitava in parte a Dogliani nella casa avita ove aveva il suo grande podere viticolo e la sua grande biblioteca, e in parte in una villa della Banca di Italia ubicata nei dintorni di Roma, con i suoi libri, le sue riviste e il suo impegno di editorialista del “Il Corriere della sera”. Oramai scriveva solo una volta la settimana, di domenica, ma si trattava di una breve ma impegnativa lezione di economia basata su fatti attuali, da lui denominata “Predica della domenica ”. Dunque, a Reggio Emilia, avrei fatto la mia prima lezione universitaria di scienza delle finanze, proprio per la Scuola Superiore di Scienze Sociali, i cui corsi avevano natura universitaria con un carattere organico di vere lezioni, non conferenze.
Da poco vi era stata una lezione su “Economia del benessere e distribuzione”, della professoressa Duchini docente dell’Università Cattolica di Milano. La mia lezione che si sarebbe tenuta il 18 marzo del 1961 alle ore 16,30 e sarebbe durata due ore accademiche, presso il Centro S. Cuore di Baragalla. Era intitolata “Politica fiscale ed economia del benessere”. In quella circostanza ero annunciato come ordinario di scienza delle finanze e noto pubblicista. La locandina aggiungeva che ero reduce dall’Università di Stato della Virginia negli USA, ove avevo insegnato per 18 mesi. Prima della mia lezione ve ne era una – anche essa di due ore accademiche – di Padre Rosa, su “I diritti dell’uomo nella costituzione italiana”.
Quando giunsi a Reggio Emilia per svolgere le mie lezioni in cui applicavo la teoria dell’economia del benessere alla politica fiscale italiana, trovai un’auto dei carabinieri di fianco alla porta dell’aula, con un appuntato e un carabiniere armati di fucile d’ordinanza. Sull’uscio, c’era Padre Rosa ad attendermi. Gli chiesi, con un certo stupore, come mai ci fosse quell’auto. Egli era sorpreso e imbarazzato. Il comunicato della scuola che annunciava la mia lezione, sul muro di ingresso della grande aula, dopo aver precisato che i due carabinieri erano mandati dalla Questura di Reggio Emilia a vigilare sulle mie due lezioni, aggiungeva “strana presenza” evidenziata da un grande punto esclamativo.
Padre Rosa mi disse che non sapeva la ragione per cui la questura di Reggio Emilia aveva emesso quella ordinanza. Gli avevano soltanto detto che vi era un problema di ordine pubblico dovuto alla mia presenza per una conferenza o lezione e che egli non ne capiva il perché. Mi fece subito entrare nell’aula folta di studenti e forse anche di pubblico attirato dall’importante evento, riportato da “Il resto del Carlino”. In fondo alla sala vi era una grande lavagna, appoggiata sulla pedana, a lato di una piccola cattedra, ove padre Rosa in piedi, sorridente, mi attendeva. Mi inoltrai, al suo fianco, e arrivato alla lavagna, dopo aver controllato che vi erano il gesso, anche colorato come avevo chiesto, e il cancellino e che tutto era in ordine, tirai fuori di tasca gli appunti per posarli sulla cattedra perché questi, insieme ad alcuni grafici, costituivano il filo delle mie lezioni.
Allora scorsi, in fondo all’aula, i due carabinieri in divisa con il fucile a tracolla, che erano entrati per il controllo di quel che avrei detto in pubblico: a padre Rosa che era al mio fianco, dissi che ero stupefatto, che non mi era mai accaduto di fare lezione in un’aula con due carabinieri armati che mi sorvegliavano, come se fossi un pericoloso eversivo. “E’ il mondo alla rovescia”, e aggiunsi: “sono stato chiamato da Einaudi , un padre della patria, primo presidente della Repubblica, a succedere nella sua cattedra; vengo da due anni accademici nell’Università di Virginia, nota come università liberale tradizionale, ove ho tenuto un corso di economia del benessere teorica per il dottorato e un corso di organizzazione industriale americana per il master, dopo esservi stato chiamato con una borsa post dottorale intitolata a Thomas Jefferson, sepolto sulla collina di fianco all’Università”.
Come è possibile che i carabinieri mi considerino un pericolo per l’ordine pubblico, per disposizioni della Questura, così grave da esser in aula, pronti a intervenire se io avessi esposto tesi eversive? Io la lezione, in queste condizioni, non riesco a farla.Ma padre Rosa mi sorrise e disse che la dovevo fare. Era un sorriso pieno di intensità spirituale, di amore per la pace e per la simpatia verso ogni creatura, che mi toglieva ogni alibi. Quello stesso sorriso nel giugno di quell’anno avrebbe illuminato il suo volto e avrebbe fatto palpitare il cuore di Carmen e il mio mentre lui con l’aspersorio avrebbe battezzato il piccolo capo biondo di neonato di nostro figlio Stefano. Io feci la lezione, con il sorriso di Padre Rosa, che mi dava un calore intenso. Il testo fu da me raccolto in una sintesi, che potetti fare, mediante gli appunti chi mi avevano passato i collaboratori della scuola, in particolare il giovane professor Luigi Bottazzi, esperto di economia e diritto del lavoro.
Da essi trassi un ampio saggio che discussi con Padre Rosa che poi lo pubblicò col mio nome, nella rivista “Aggiornamenti Sociali”, che lui dirigeva. Frattanto avevamo chiarito la strana ragione della presenza dei carabinieri armati in quell’aula: vi era un appunto della questura di Pesaro Urbino su di me, quando insegnavo all’Università di Urbino, come soggetto intellettualmente ambiguo e potenzialmente antidemocratico e un altro appunto, della Prefettura o Questura di Ancona, all’epoca del governo di Tambroni, che nel 1959 si era insediato da poco in Italia, nei mesi precedenti alla mia chiamata all’Università di Virginia.
Inspiegabilmente, la questura di Pesaro-Urbino descriveva la mia ideologia come politicamente ambigua perchè potenzialmente anti democratica, in quanto ero un socialdemocratico, con tessera della sezione di Pavia ed in tale qualità avevo sostenuto un anziano candidato socialdemocratico al senato nell’Oltre Po Pavese, contro il candidato unitario della sinistra. Il che era vero, ma non certo eversivo, dato che gli avversari erano i socialcomunisti del fronte popolare, contro cui noi ci battevano in nome del riformismo di Giacomo Matteotti e dei fratelli Montemartini apostoli del movimento cooperativo e delle aziende municipali di pubblici servizi. L’altra valutazione negativa riguardava il fatto che avevo dato una consulenza economica (gratuita) al presidente del consiglio Tambroni, che, in seguito, era stato sospettato di voler fare un colpo di stato di estrema destra, sconfitto grazie al grande raduno della sinistra unita di Piazza Statuto a Torino.
La consulenza riguardava la scala mobile per tutti i salari che era allora in vigore e che avrebbe comportato una riduzione generalizzata dei salari, perché per la prima volta (e forse per l’ultima nella storia economica italiana) l’indice del costo della vita era diventato negativo, generando potenzialmente un taglio delle retribuzioni. Avevo consigliato a Tambroni di disinnescare questo automatismo generalizzato e di riservare la scala mobile solo a difesa dei salari più bassi e mai “a rovescio”. Credo che Tambroni avesse seguito il mio consiglio. Ma allora non ne ero al corrente perché quando la decisione era stata presa, io oramai ero negli USA.
Con Padre Rosa, esaminando questi documenti, nell’Aprile 1961, rimanemmo abbastanza sorpresi. Ne discutevamo in uno studio, dell’appartamento, annesso alla Cattedrale di San Fedele nel centro di Milano, nei pressi del Duomo, in cui il piccolo gruppo di gesuiti di San Fedele, viveva la sua vita conventuale. Padre Rosa non era solo, perché – come mi aveva già spiegato una volta, prima che io lasciassi Milano per gli USA – i gesuiti si controllano a vicenda e uno di loro a turno, assiste ai colloqui che i padri dell’ordine hanno con gli “esterni”.
In seguito, alla fine del maggio del 1961, quando non ero ancora professore a Torino, padre Rosa mi chiese di andare da lui per discutere delle implicazioni, per la politica economica nazionale, della enciclica Mater et Magistra, di cui mi aveva fatto avere sia il testo in Latino che quello in Italiano, nelle versioni ufficiali, ovviamente mediante un servizio di posta celere, dato che allora questo era il modo di comunicare. Quando ci vedemmo, io gli feci notare che la traduzione italiana aveva degli slittamenti rispetto alla versione latina, a favore dell’intervento pubblico nell’economia. E padre Rosa che già lo aveva rilevato sintetizzò la differenza fra i due testi con: Mater et Magistra chiusura a sinistra, Madre e Maestra chiusura a destra. Vi era cioè una apertura di Papa Giovanni verso il nuovo centro sinistra italiano.
Padre Rosa mi disse, con mia somma sorpresa, che mi aveva pregato di venire da lui, perché doveva esprimermi il desiderio di papa Giovanni di avere una consulenza di uno studioso non facente parte del mondo cattolico militante, circa la conformità della nazionalizzazione dell’energia elettrica all’Enciclica Mater et Magistra, nel testo latino che ne era, ovviamente, la versione autentica. Io, riletto il testo latino con attenzione, mi recai ancora da lui e gli esposi in sintesi che la dottrina ortodossa liberale conforme al pensiero cattolico, comportava l’intervento pubblico contro gli abusi del monopolio nelle imprese del settore delle pubbliche utilità, di cui nessuno può fare a meno come appunto l’energia elettrica, nella vita civile, nel mondo contemporaneo di allora.
Per combattere i monopoli ci sono due metodi: la regolamentazione pubblica e la nazionalizzazione, con imprese pubbliche basate su principi di economicità di mercato, che tengono conto dell’interesse generale che, nella dottrina della Chiesa, si chiama “bene comune” in quanto riguarda anche la tutela dei meno favoriti. Gli avevo fatto l’esempio dell’Eni, guidato da Enrico Mattei, già capo dei partigiani cattolici e sponsorizzato da Ezio Vanoni, sulla base del “Codice di Camaldoli”, alla stesura del quale egli aveva collaborato per la parte economica assieme al cognato Pasquale Saraceno, professore di economia industriale all’Università Cattolica e a Sergio Paronetto, leader degli universitari cattolici, segretario dell’IRI. E scrissi il parere positivo, che fu pubblicato da “Aggiornamenti Sociali”, come un mio saggio sul tema.
Fu allora che egli mi raccontò una storiella sulla “verità relativa”, che si raccontava fra i gesuiti, riguardante la questione se fosse lecito per un sacerdote fumare durante la messa. Un sacerdote non gesuita aveva chiesto al suo superiore se ciò fosse lecito e questi gli aveva risposto di no. Un padre gesuita, invece aveva chiesto al suo superiore se fosse lecito pregare e onorare Dio mentre lui fumava. E questi gli aveva risposto “certamente”: voleva dire averlo sempre con sé. Ovviamente era una barzelletta ironica che correva fra i gesuiti, come autocritica preventiva, come caveat contro i rischi del relativismo morale. Egli certo, con la sua limpida etica dell’amore divino che diventa un dono umano, non era un relativista.
Padre Rosa mi chiese quale fosse il mio compenso per il parere, io rimasi sorpreso, perché mi pareva di aver adempiuto a un mio compito di studioso, in una situazione importante per l’Italia. Egli mi disse che i professori dei movimenti cattolici consultati dal Papa avevano mandato al Vaticano una parcella, per il loro parere. Io replicai a padre Rosa con un paradosso osservando che una offesa al papa ha un valore negativo infinito e per inverso un ausilio al papa ha un valore positivo infinito e che io, soggetto umano finito, non lo potevo quantificare.
Padre Rosa sorrise, mi ringraziò e dopo poche settimane inviò alla abitazione, che stavo per lasciare a Milano, in Via Schiapparelli, un pacchetto contenente un dono del Papa: era una litografia di Orfeo Tamburi, un pittore di Jesi che io amavo, dai tempi in cui ero stato professore a Urbino.
Padre Rosa sapeva che io avevo scelto Urbino come mia sede universitaria perché essa stava nel palazzo ducale. Immaginava, perciò, che essendo Jesi il maggior centro culturale dell’area di Ancona, io conoscessi a amassi la pittura di Orfeo Tamburi, che era di Jesi. Ed aveva colto nel segno, perché già io avevo una litografia di Tamburi. Ora ne ho due: una è un dono di Papa Giovanni, tramite padre Rosa. Entrambi, hanno il dolce sorriso di Padre Rosa.
Nostro figlio nacque il 21 aprile del ‘61, in una clinica di Milano. Carmen e io eravamo felici, volevamo subito battezzarlo. Chiesi a padre Rosa se era possibile far battezzare Stefano nella Chiesa di San Fedele e se lui lo stesso, come sacerdote, potesse darci il privilegio di quel battesimo. Padre Rosa mi disse che lui “poteva” come sacerdote, svolgere tutte le missioni sacerdotali, ma che non aveva mai celebrato un battesimo prima di allora, perché gli era stato assegnato un compito di studioso.
Ma era felice di fare una eccezione per noi battezzando nostro figlio nella Chiesa di San Fedele, poiché sarebbe stato, sua memoria, il primo battessimo dall’epoca della liberazione in poi. Aggiunse, con un lieve rossore, che poiché era -anche per lui- “il primo battessimo” sperava di non commettere errori. La cerimonia fu bellissima, soprattutto perché fu illuminata dallo sguardo e dal sorriso radioso quasi di estasi, di padre Rosa, nel dire le ultime parole del battesimo e levando lievemente in alto l’aspersorio sul piccolo capo di Stefano. Ho sentito allora un colpo al cuore, e lo provo ogni volta che ricordo quel momento, perché quel sorriso radioso denso di felicità e bontà spirituale trasportava per un attimo in un’altra realtà.
Poi ci siamo quasi persi di vista. Ma non fu così del tutto, perché nel 1964, quando ormai in Italia vi era il Centro sinistra organico, ed io ero professore ordinario e direttore del Laboratorio di Economia dell’Università di Torino, padre Rosa mi chiese di fare una lezione alla Scuola di alti studi sociali di Reggio Emilia. Allora, oramai , abitavo con Carmen e il piccolo Stefano nella casa in cui anche ora risiedo, da vedovo, in Corso Francia 7. Padre Rosa mi aveva chiesto che la lezione di due ore alla Scuola Superiore di Scienze Sociali di Reggio Emilia, si svolgesse, il 6 di giugno alle ore 17, sulla attuale situazione economica italiana.
Con il sorriso di padre Rosa nel cuore, mi era impossibile rifiutare. Ora io penso che mi sorrida dal cielo, e mi chieda se ho gradito il dipinto di Orfeo Tamburi. L’ ho esposto, in Corso Francia 7 , nell’anticamera dell’ingresso insieme a tre dipinti di mia mamma uno che ritrae suo padre mio nonno Francesco magistrato, l’altro che ritrae un vecchio con una barba bianca e il terzo che ritrae una donna enigmatica. Poco distante, accanto al dipinto di Tamburi che mi ha donato papa Giovanni, vi è quello che avevo comperato io ad Ancona.
Tutti mi danno il sorriso radioso e buono di padre Rosa.
Torino, 19 giugno 2019
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tratto da “ Un’esperienza di formazione sociale e politica. I Gesuiti a Reggio Emilia “ di Luigi Bottazzi, Editore Gianni Bizzocchi, Reggio Emilia, 2020, pagg. 115-121.
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Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]