«Rocco tornò a osservare il panorama. “Non siamo amici, non lo siamo mai stati, e forse non lo saremo mai. Lavoriamo insieme, a volte ci avviciniamo, poi ci allontaniamo, come branchi di pesci in mezzo all’oceano. Ma lo sapete la cosa strana? Mi siete rimasti solo voi. Per quanto sia dura e difficile ammetterlo, non ho altro che voi…”».
L’ultimo romanzo di Antonio Manzini, con protagonista Rocco Schiavone si chiude con queste parole. Che nascondono un colpo di scena che non “spoilero”. Ma che rivelano il significato dell’amicizia per il vicequestore romano trasferito d’ufficio ad Aosta, per vicende che non sto a ripetere dopo una decina di romanzi molto conosciuti grazie anche alla serie televisiva che vede nei panni di Schiavone, Marco Giallini. Leggendo il libro e avendo in mente le immagini dello sceneggiato, non ho trovato quel gap, dovuto ai loro linguaggi diversi, che spesso fa storcere il naso a chi prima legge il libro e poi vede il suo adattamento “visivo”. Convivono serenamente.
La narrazione si svolge nell’arco di undici giorni da un lunedì al giovedì della settimana successiva. Giorni d’inverno: «Secondo giorno di neve. Fioccava e gonfiava d’ovatta soffice tetti, pali della luce e attutiva i rumori della città con quella capacità che ha la neve di silenziare il paesaggio». E Rocco non ha che Clarks e loden. In questi undici giorni accadono moltissime cose. Innanzi tutto l’omicidio della professoressa in pensione Sofia Martinet, famosa studiosa di Leonardo, e un altro misterioso assassinio che mette in luce trame inquietanti. Qualcuno in questura confessa la sua omosessualità e tutti i colleghi lo accettano, anzi gli vogliono finalmente bene quando prima non se lo filava nessuno. Potenza dei romanzi a tesi, che strizzano l’occhio ai buoni sentimenti del politicamente corretto. Per non scontentare nessuno.
Torniamo nel seminato, dicendo che la squadra è sempre la stessa, qualcuno è uscito dalle simpatie di Rocco altri, forse, ci rientrano; il simpatico anatomopatologo tresca gioiosamente (e trasgressivamente) con la responsabile della scientifica, il magistrato è in fase negativa con la moglie, si è rimesso a fumare. Insomma tutte “vecchie conoscenze” di chi è pratico della serie, ma non sono, però, le vecchie conoscenze a cui allude il titolo. Lo scoprirete leggendolo.
In tanti romanzi italiani, ma non solo, sono protagonisti commissari (non vicequestori) o poliziotti alle prese con lutti alle spalle e conseguenti tormentate storie post trauma, se possiamo dire generalizzando. Sembrano format, cambiano i personaggi, le ambientazioni, ma il sapore del cliché resta appiccicato…. agli occhi. Forse saranno i tòpoi del genere poliziesco o piuttosto il taglio psicologico della coscienza dei personaggi, sempre migliore della realtà che vorrebbero diversa, a far volgere a un certo “manierismo” questo filone narrativo.
Il nostro vicequestore, per ritornare in carreggiata, continua a parlare con Marina, la moglie uccisa al posto suo in un agguato; continua a rollarsi dei cannoni di marijuana in questura (e questo lo rende decisamente simpatico) e continua a portarsi a spasso Lupa, il cane che gli fa compagnia. Tutti ingredienti per il successo di una serie poliziesca di buon livello, seppure con i limiti detti.
Possiamo solo auspicare che anche questa recensione non entri nel famoso tabellone esposto nella questura di Aosta, dove sono elencati i fatti in ordine di rompimento dei cabbasisi, per prendere in prestito un termine usato in un’altra serie poliziesca. Verrebbe da dire, in conclusione, con Schiavone “Sti’…”.
(Antonio Manzini, Vecchie conoscenze, Sellerio, Palermo 2021, pp. 404, 15,00 euro, recensione di Glauco Bertani).
Si ringrazia la Libreria del Teatro, via Crispi 6, Reggio Emilia
Ultimi commenti
Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]