Era il 2007, mi trovavo a organizzare assieme a Ponte Gaetano Granozzi, un professore universitario di chimica a Padova, una conferenza sulla presentazione del libro su Gesù scritto dal mio principale Maestro Miten Veniero Galvagni; fu invitato a presentarlo un professore di storia della chiesa e del cristianesimo, l’allora preside di lettere e filosofia all’Università di Padova, Paolo Bettiolo.
Ci trovavamo in centro a Padova, a palazzo Moroni. Io feci una breve introduzione, era una delle prime volte che parlavo in pubblico, avevo il cuore che andava a mille… Non mi ricordo ciò che dissi, ma avevo la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua.
Iniziò a presentare il libro il prof. Bettiolo, si soffermò a raccontare degli aspetti a mio avviso lontani dal contenuto del libro, forse erano più inerenti a quanto concerneva il corso che stava tenendo all’università. La cosa che più mi colpì è che diede al mio Maestro il nome dell’eresia di cui ineriva il suo pensiero: “Pelagiano”.
Ricordavo che tra i padri della chiesa c’era un certo Pelagio, ma non avrei saputo dire nulla su di esso se interrogato. Il mattino seguente, mentre facevamo colazione, Miten mi disse: “Prendi l’Abagnano, il testo di storia della filosofia, e cerca”. Lo trovai.
Pelagio era un ricercatore che venne criticato aspramente da Sant’Agostino, appunto perché affermava che il peccato originale era solo un esempio di peccato e non era affatto vero che la Grazia e la liberazione da quest’ultimo originasse solo da Dio. Pelagio affermava che la Grazia l’uomo stesso la può ottenere da sé, avendo Dio come fratello e sullo stesso piano.
Tale posizione metterebbe tutte le gerarchie di potere sullo stesso piano e impedirebbe tutto l’impianto verticale della Chiesa. Di questa opposizione Sant’Agostino fece un suo cavallo di battaglia: oltre a essere contro i Manichei, di cui in origine faceva parte, si oppose anche al Pelagianesimo, affermando che il peccato originale di Adamo era trasmissibile di generazione in generazione e l’unica soluzione sarebbe stata la Grazia Divina. La Grazia Divina ci mette nella continua condizione infantile e nell’impossibilità di fare del bene con le nostre mani, in quanto non responsabili direttamente nei confronti della salvezza.
Per analogia è presente lo stesso meccanismo nel Buddhismo, ovvero il pensare di aspettare l’illuminazione per fare del bene, perché altrimenti nell’assenza di perfezione le nostre azioni sarebbero impure, perché inerite dal karma e quindi foriere di altrettante conseguenze karmike.
Se la Grazia viene dall’alto e le nostre azioni sono impure, come possiamo fare del bene? Intanto la vita passa aspettando la Grazia e l’illuminazione e non tentiamo di fare del bene, perché non siamo ancora giunti alla meta.
L’inchinarsi durante l’inno nazionale, il take a knee è altrettanto eretico: lo stare in ginocchio perché siamo tutti fratelli, pure Dio è uno di noi, quanta libertà sprigiona?
Lo stare all’ultimo posto, come avrebbe detto Bert Hellinger, dà forza: tutte le volte che ci eleviamo in alto, oltre le nostre possibilità, il rischio di precipitare è alto e prima o poi comunque dovremo scendere, Icaro in ciò è stato maestro. Sapere che Dio è al tuo fianco e fa ciò che fai anche tu, quanta divinità sprigiona nell’essere umano? Magari Dio ha un altro colore della pelle, un altro sesso e appartiene a un’altra religione, oppure non ha nessuna religione…
Chi compie l’eresia se Dio sta al nostro fianco: Dio o noi?
Non mi preoccupo dell’eresia e quando sento di poter fare del bene lo faccio…. Tanto è tutto un’illusione
Quindi perché non fare del male se è tutto un’illusione?
Un abbraccio