Ci sono due tipi di paura. C’è anzitutto quella che si prova di fronte ad avvenimenti improvvisi e pericolosi, come una tempesta o una malattia. Di fronte a questi eventi, l’intelligenza sa spesso trovare un rimedio e la pazienza e la perseveranza ci infondono coraggio. Ma c’è un’altra paura, quella che nasce dentro, che ingigantisce la minaccia esterna, oscura l’intelligenza, suscita in un primo tempo ribellione e rabbia, per poi terminare nella passività e nell’isolamento rancoroso.
Questi sentimenti li ho osservati spesso nel mio lavoro con le tossicodipendenze, nei familiari dei nostri ragazzi: è difficile incrinare quel bozzolo di paura e sconforto, che porta a rassegnarsi a una sofferenza senza prospettive.
Una medicina efficace è l’incontro con la sofferenza di altre persone: leggiamo sui loro volti la nostra stessa storia e, anche se nulla apparentemente è cambiato, la condivisione fa spuntare la speranza.
Qualcosa di simile lo sto notando nella crisi attuale del coronavirus. Angoscia e sconforto dipendono spesso, non dalla realtà che stiamo vivendo, ma da un turbine incontrollato di pensieri, di scenari paurosi, di grovigli di ipotesi e di informazioni raccolte qua e là, che vengono asservite di volta in volta alle illusioni o ai rancori.
Certo, non è facile mantenere la serenità: tante sofferenze sono reali. Quale può essere il rimedio o, almeno, un aiuto per dare senso a quanto stiamo vivendo?
C’è una parola di san Paolo nella sua lettera ai cristiani di Filippi: “Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (Fil 4,6). Ci sembra una contraddizione: come possiamo supplicare e ringraziare nello stesso momento e, per di più, “in ogni circostanza”?
Il motivo, Paolo lo dice una riga sopra: “Il Signore è vicino”. Potremmo rispondere: “Ma se sei vicino, perché non ti vediamo, perché sembri essere l’Assente?”. In effetti, quando andiamo in montagna, se vediamo la cima, essa è ancora lontana; quando non la vediamo più, vuol dire che siamo ormai arrivati. Mi viene in mente, soprattutto, quella poesia che molti di voi conoscono. Vediamo in sogno la nostra vita, come due serie di impronte sulla sabbia, una nostra e una del Signore. In certi giorni, però, c’è solo un’orma, e sono quelli di maggior dolore e sconforto. Ci lamentiamo col Signore: “Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita, e io ho accettato di vivere con te; perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti più difficili?”. E il Signore rispose: “Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato con te e che non ti avrei lasciato solo neppure per un attimo: i giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia, sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio”.
Per questo, possiamo chiedere e ringraziare nello stesso tempo. Chiediamo, perché siamo deboli e abbiamo bisogno di consolazione: non è male riprendere coscienza del nostro limite. Ma ringraziamo anche, perché sappiamo che Lui non ci abbandona mai. Ancora san Paolo: “Sia che viviamo sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm 14,8); “Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (1Cor 10,13).
Ultimi commenti
Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]