Ventiquattresima lettera alla comunità al tempo del coronavirus
La parola “pandemia” indica qualcosa di universale, che tocca tutti, con la quale tutti devono fare i conti. In teoria, essa dovrebbe convincerci che siamo tutti uguali: uno strano fondamento per l’égalité del trinomio rivoluzionario. Non è però scontato che se ne tragga come conseguenza la fraternité. Ai muri ormai tradizionali rischiano di aggiungersene altri, e in molte persone la paura porta a ripiegarsi su se stessi, a isolarsi in una solitudine angosciosa.
È possibile dare un senso alla parola “fratello”, oppure essa si riduce a indicare una generica prossimità, che non regge alla prova della sofferenza? È interessante che si usi ormai la parola “congiunto”, un’espressione che porta il segno della provvisorietà e che sostituisce parole molto più impegnative.
La domanda è tanto più seria per i cristiani, che delle parole “fratello” e “sorella” fanno un uso abbondante. Il rito rischia di suonare convenzionale, se non ipocrita.
Una riflessione sensata deve partire dalla considerazione che, se ci sono dei fratelli, c’è in origine un padre (e una madre). Pietro, nella sua prima lettera, dice: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatto nascere di nuovo, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva” (1Pt 1,3). Come ogni nascita, anche quella spirituale del cristiano crea una situazione irreversibile: i congiunti possono allontanarsi e diventare estranei, i fratelli no.
Non solo: questa nuova nascita è un dono. I fratelli non si scelgono e la tentazione, anche dei cristiani, è di riaggregarsi secondo affinità e amicizie; tuttavia la forza del sangue non scompare e spesso sono proprio la sofferenza e la prova che la fanno emergere.
Infatti essere fratelli vuol dire essere responsabili gli uni degli altri. Questa responsabilità è inscritta nella carne. Dio stesso ha voluto che la sua paternità divenisse carne e sangue nella persona e nel sacrificio di Gesù. “Questo è il calice del mio sangue, versato per voi e per tutti”, dice il Cristo nelle nostre assemblee.
Queste parole, ripetute ogni domenica, non possono non lasciare una traccia. Certamente dobbiamo rivedere i nostri atteggiamenti e non tutto sarà facile: antipatie, pregiudizi, superficialità vanno messi nel conto. Per questo Pietro parla di “una purificazione delle nostre anime con l’obbedienza alla verità”.
Ma è proprio la memoria e l’esperienza del dono gratuito dell’amore paterno di Dio che ci muove ad “amarci sinceramente come fratelli; amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, voi che siete stati fatti nascere di nuovo non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,22s.).
Il Vangelo indica anche alcuni effetti di questa faticosa presa di coscienza. Anzitutto, la comunità cristiana diventa un luogo nel quale “si lega e si scioglie”. Si stringono dunque legami autentici, liberanti; si sciolgono le miserie umane, si fa l’esperienza del perdono. Si sciolgono i puntigli, che sono la terribile – anche se spesso ridicola – malattia delle comunità umane; i legami non sono dettati dalle affinità sociali, culturali, generazionali, ma dal legame con il Signore della Chiesa: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, dice Gesù (Mt 18,20).
In questa parola, “riuniti”, c’è la fatica dell’unità. La storia della Chiesa, le sue perduranti divisioni, dimostrano come sia appropriata la definizione del demonio usata spesso da papa Francesco: “il Divisore”. L’unità richiede anzitutto una purificazione dello sguardo, che rivolgiamo all’uomo: vedere i suoi limiti con compassione, cercare la correzione fraterna, rendersi conto che le malattie che meglio vediamo negli altri sono proprio quelle delle quali soffriamo noi, tutto questo non solo richiede fatica, ma l’umile preghiera rivolta a Gesù, che col suo sangue ha abbattuto il muro di divisione (Ef 2,14).
Questa fatica, però, ha un effetto mirabile: il cuore della comunità cristiana si mette progressivamente in “sinfonia” (parola bellissima, usata da Gesù nel vangelo di Matteo, cap. 18,19) con la preghiera del suo Signore. Le parole di Gesù nell’ultima cena diventano le nostre parole: “Tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).
Per questo, Gesù ci dice una parola che sembra una grande sfida e in realtà è una promessa: “In verità io vi dico: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà” (Mt 18,19).
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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