Liv Ferracchiati è un importante punto di riferimento della drammaturgia italiana Under 35. Umbra d’origine, comincia la sua carriera con “Todi is a small town in the center of Italy”, selezionata poi, insieme ai primi due capitoli della “Trilogia sull’identità”, da Antonio Latella per la Biennale Teatro del 2017.
La “Trilogia sull’identità” tratta il tema dell’identità di genere in modo puntale ma poetico. In questi giorni ERT ci ha dato la possibilità di rivedere tutti i capitoli della trilogia; un’occasione imperdibile anche per coglierne la forza dei tre spettacoli come unica opera coerente e autoconclusiva. I tre non sono capitoli di un’unica storia, ma bolle di vita di tre persone che si raccontano o vengono raccontate, accomunate dallo stesso problema: comunicare al mondo che sono costrette in un corpo in cui non si ritrovano.
“Peter Pan guarda sotto le gonne”, primo capitolo della trilogia, ci catapulta negli anni 90’ nel mondo di Peter , ragazzino di 11 anni (e mezzo) che ama giocare a calcio, il quale è però nato in un corpo femminile, ha lunghi capelli biondi e per accontentare i genitori indossa abitini rosa. Lo spettacolo ci racconta delle sue prime tensioni sessuali nei confronti di Wendy, una ragazzina di 13 anni incontrata al parco, bravissima con l’hula hop che ogni tanto si fuma una sigaretta. Il desiderio di contatto fisico, la voglia di emancipazione, l’imbarazzo, l’impossibilità di capire e di comunicare con i genitori. Sarà la fatina Tinker Bell, disinvolta ed esuberante, a fare luce nella vita di Peter: sul fondo di una lattina di birra vede se stesso a 20 anni ed è tutto quello che vorrebbe essere, compreso un maschio. I linguaggi usati sono la parola e la danza; si passa delicatamente da una situazione realistica o quantomeno verosimile a duetti metaforici che perfettamente incarnano le sensazioni del protagonista.
“Stabat Mater”, premio Hystrio Nuove Scritture di Scena 2017, racconta la storia di Andrea, uno scrittore sulla trentina, dalla vita apparentemente banale, ma che deve far convivere il suo essere maschile con un corpo di donna. Due linee temporali ci raccontano della relazione con la sua ragazza, le cui scene procedono a ritroso, e delle sue sedute dall’analista, di cui alla fine si innamora. Andrea odia il suo corpo femminile, il monologo iniziale è di fatto un insieme di bestemmie e imprecazioni contro il seno, il sudore che causano i reggiseni contenitivi, il ciclo che limita la libido; tuttavia Andrea all’analista confessa di non avere intenzione di fare grandi cambiamenti, perché da fuori è comunque percepito come uomo, per il resto “ci sono altri metodi”. Un rapporto di amore-odio che si rispecchia nel rapporto con la figura materna.
Andrea ha sempre saputo di essere maschio e ha sempre provato una forte attrazione sessuale verso le femmine; ma la presenza ingombrante di sua madre, che si rivolge a lui al femminile (onnipresente in scena in video, un vero Grande Fratello giudicante) gli impedisce di vivere serenamente la sua relazione e la sua vita “normale”; è infatti l’unico a non cambiarsi mai in scena, mentre gli altri personaggi, mutano (o fanno la muta) e lasciano per terra i vestiti come una vecchia pelle sinonimo di cambiamento. La scrittura estremamente fresca e naturalistica, piena anche di silenzi e intermezzi tipici del parlato, si contrappone ai “Pensieri Elementari”, componimenti in versi con cui il protagonista sfoga le sue tensioni sessuali e l’odio verso la normalità, l’anello di matrimonio dell’analista, che deve per forza essere sedotta e quindi dominata.
“Un Eschimese in Amazzonia”, premio Scenario 2017, è il dialogo sconclusionato in forma di stand-up comedy fra un Eschimese (la persona transgender) e la società, qui rappresentata da un coro, che parla all’unisono in una strana lingua cadenzata, veste uguale e si muove con gesti codificati.
La società è uniformata, omologata, spersonalizzata, ma soprattutto aggressiva e rimane quindi un dubbio: si comporta così solo nei confronti dell’eschimese? Non lo comprende perché non lo ascolta o non lo vuole ascoltare? Un Eschimese è evidentemente fuori luogo in Amazzonia (per altro non casuale la scelta geografica che rimanda alle guerriere Amazzoni, femmine di fatto, ma che compiono azioni maschili), ma è nonostante tutto combattuto: una parte di lui vorrebbe comunque fare parte di quella società, non essere il diverso. Un’altra contraddizione si fa strada in questa dinamica: nonostante si sforzi di essere autentico, la visione dell’Eschimese è comunque infarcita di luoghi comuni, il che lo rende perfetto frutto della società odierna e ad essa inevitabilmente appartenente e, in effetti, protagonista e coro si ritrovano infine ingarbugliati nello stesso filo.
Alla fine, gli stessi componenti della società, dopo un presunto funerale, parlano benevolmente del loro rapporto con l’Eschimese: chissà come, dopo la morte muoiono anche i nostri pregiudizi. In scena troviamo la stessa Liv Ferracchiati nei panni del narratore Eschimese; la trama è quasi del tutto assente, le scene sono collegate da fili deboli (come in una stand-up comedy appunto), siamo ai limiti del no-sense. Lo spettacolo è reso dinamico dal coro che ci trascina con questo misto di danza, recitazione e canto che assilla di domande e risposte.
Il sesso nella trilogia è un tema decisamente fondamentale (sia come atto, che come gender), ma non si arriva mai allo scandalo né all’offesa. I temi sono trattati sempre intelligentemente e non si danno mai risposte univoche, solo l’esperienza personale dei vari protagonisti. Un applauso sentito agli attori, senza la cui bravura il risultato sarebbe riuscito a metà.
Ultimi commenti
Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]