La più vergognosa partita mai giocata nella storia del calcio mondiale va in scena mercoledì 21 novembre 1973: gli spettatori sugli spalti sono poco meno di ventimila, i giocatori in campo soltanto 11. Uno, il portiere, è in completo nero, tutti gli altri hanno la maglia rossa, i pantaloncini blu e i calzettoni bianchi: sono i colori della Estrella Solitaria, la bandiera del Cile.
Siamo a Santiago, all’Estádio Nacional, e la posta in gioco è la qualificazione ai Mondiali dell’anno dopo in Germania, quelli che vedranno la DDR sconfiggere la BRD nell’epico derby deciso dal gol di Sparwasser. Quando l’arbitro Rafael Hormazábal, anche lui cileno come gli unici calciatori sul rettangolo verde, fischia l’inizio, incomincia l’unica azione di quella partita, a norma di regolamento viziata da una serie tanto infinita quanto impunita di fuorigioco: perché ad ogni passaggio in avanti, non ci sono mai due giocatori difendenti avversari tra il pallone e la linea di porta. Gli avversari, infatti, proprio non ci sono. E così quello che, dopo pochi secondi, Francisco Valdez realizzerà in una porta desolatamente vuota, passerà alla storia come el gol más triste.
Per comprendere la genesi della più vergognosa partita mai giocata nella storia del calcio mondiale bisogna tornare indietro di un paio di mesi, fino a un altro, drammatico 11 settembre vissuto dall’umanità. Siamo sempre a Santiago del Cile, ma non più – o meglio, non ancora – all’Estádio Nacional. Telecamere e riflettori, in quell’11 settembre, sono tutti puntati sul Palacio de La Moneda, il Palazzo della Zecca, residenza ufficiale del Presidente della Repubblica del Cile. Una carica che, dal novembre 1970, è ricoperta da Salvador Guillermo Allende Gossens. Per la storia è semplicemente Salvador Allende ed alla storia passerà non solo per essere stato il primo politico dichiaratamente marxista eletto democraticamente alla carica di presidente di un qualsiasi paese delle Americhe (e, per alcuni, addirittura del mondo), ma anche per il tragico epilogo di quell'”altro” 11 settembre.
Premio Lenin per la pace nel 1972 – che l’anno prima era stato assegnato, tra gli altri, a Renato Guttuso, ultimo dei cinque italiani insigniti della versione comunista del Nobel – Allende viene eletto 29esimo Presidente del Cile nel novembre 1970 dal Congresso nazionale, dopo aver vinto un paio di mesi prima con una maggioranza risicata del 36% le elezioni politiche, alla guida della coalizione di Unidad Popular che annovera, accanto ai partiti d’orientamento marxista come il suo, i cattolici di sinistra e i radicali. E che riesce a far breccia, oltre che tra operai e studenti, nella borghesia progressista e nel mondo intellettuale ed artistico: dal poeta Pablo Neruda ai membri della cosiddetta Nueva Canción Chilena, come il cantante Victor Jara, il pianista Sergio Ortega e il gruppo degli Inti-Illimani, a cui dobbiamo rispettivamente testo, musica e una delle più celebri esecuzioni di Venceremos, l’inno della campagna di Unidad Popular.
Nei quasi tre anni di governo, Allende vara una serie di riforme, a partire da quella agraria, finalizzata a ridistribuire la ricchezza del Paese in favore delle classi maggiormente disagiate: dall’aumento dei salari al mezzo litro di latte al giorno garantito a ogni bambino sotto i 14 anni. Introduce il divorzio, annulla le sovvenzioni statali alle scuole private, estende il congedo di maternità ma, soprattutto, il Presidente cileno tassa le plusvalenze, sospende il pagamento del debito estero e avvia un massiccio programma di nazionalizzazione delle principali industrie private del Paese, di banche e assicurazioni, società di produzione e distribuzione di energia elettrica, di trasporti e telecomunicazioni. E miniere di rame: tanto che in quel 1973 lo Stato arriverà a controllare il 90% delle miniere, fino ad allora sotto il controllo di due colossi statunitensi, la Anaconda e la Kennecott. E qui ci piace immaginare, a noi non più giovincelli che conosciamo a memoria tutte le battute cult di quel capolavoro che è “Wall Street”, che la Anacott acciaio amata da ferro azzurro non sia un semplice nome di fantasia, ma una dotta citazione per crasi regalataci da un grandissimo cineasta, come Oliver Stone, per altro di spiccate simpatie social-comuniste, sinistrorse o dem che dir si voglia…
Ma torniamo al 1973, a Salvador Allende e a quella “via cilena al socialismo” che, inevitabilmente, finisce per irritare la media e alta borghesia e, soprattutto, pestare i calli agli Stati Uniti d’America, intesi come multinazionali, come Governo, come CIA. Alla Casa Bianca, dal 1969, c’è Richard Nixon e il suo segretario di Stato è Henry Kissinger, al quale verranno attribuite queste eloquenti parole: «Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo: la questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli».
Sta di fatto che la politica rivoluzionaria di Salvador Allende finisce per far salire il dissenso internazionale e la tensione politica nel Paese. Ne conseguono fuga di capitali esteri, inflazione galoppante, blocco di molte attività economiche e mancanza di materie prime. Da lì il divampare di scioperi e continue proteste sociali, in una parola il caos: l’humus perfetto per un golpe.
Alle sette del mattino dell’11 settembre 1973 alcune navi della Marina militare cilena occupano il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico, mentre a Santiago le forze aeree e i carri armati dell’esercito fanno scattare l'”Operazione silenzio”, bombardando le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio e tv. Solo radio Magallanes, l’emittente del Partito comunista cileno, riesce a continuare a trasmettere e da quelle frequenze – da lì a poco – Allende trasmetterà il suo ultimo, storico messaggio alla nazione: “Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà vano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento. Viva Chile! ¡Viva el pueblo! ¡Vivan los trabajadores!”.
Alle 8.30 le forze armate dichiarano di aver preso il controllo del Cile. Le guida Augusto Pinochet, che Allende – ritenendolo un militare tutto d’un pezzo e fidato – ha nominato generale capo dell’esercito nemmeno un mese prima, all’indomani di El Tanquetazo, il golpe dei carri armati abortito praticamente sul nascere con l’arresto preventivo di gran parte dei militari cospiratori e il provvidenziale intervento del 1° Reggimento di fanteria, guidato proprio da Pinochet, contro l’unico ufficiale golpista sfuggito alla cattura, il tenente colonnello Roberto Souper, che con un manipolo di mezzi blindati e uomini del 2º Battaglione Mezzi Corazzati aveva circondato la Moneda.
E proprio nello splendido palazzo presidenziale nel cuore del Barrio Cívico, anche in quell’11 settembre 1973 circondato dai carri armati, il presidente Allende è asserragliato insieme a un pugno di collaboratori e alle guardie del corpo del GAP, il Gruppo di amici personali. Non intende cedere ai militari. “Io resto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica, ma chi di voi lo desidera è libero di uscire”, dice. Restano tutti al suo fianco e un GAP, Antonio Aguirre Vásquez, un eroico patagone non ancora trentenne, dal balcone principale inizia a sparare con la sua mitragliatrice fino a quando, verso mezzogiorno, le bombe sganciate dai caccia Hawker Hunter non cancellano completamente la facciata della Moneda.
Alle due del pomeriggio è tutto finito e il generale Augusto Pinochet può insediarsi alla guida del Cile, che rimarrà sotto la sua spietata dittatura militare fino al 1990. Nei combattimenti hanno perso la vita 34 militari ribelli e 46 GAP: Antonio Aguirre Vásquez, trasportato con ferite alle gambe e alla regione lombare alla Posta Central, l’ospedale di Santiago, diventerà uno delle migliaia di desaparecido di quella dittatura. All’interno del palazzo della Moneda muoiono due persone: il giornalista Augusto Olivares e il presidente Allende. Lo trovano nel suo ufficio, ucciso da colpi di arma da fuoco, e il suo cadavere viene trasportato, avvolto in un poncho su una barella, da soldati e vigili del fuoco fuori dal palazzo. Solo nel 2011, dopo la riesumazione del corpo chiesta dalla famiglia, verrà confermata l’ipotesi del suicidio, sostenuta anche dal medico personale di Allende presente al suo fianco durante il golpe: il Presidente del Cile si è ucciso con due colpi esplosi dal fucile AK-47, regalatogli da Fidel Castro, che teneva in mezzo alla gambe.
In quella drammatica mattina dell’11 settembre, la Nazionale di calcio cilena è attesa al centro sportivo intitolato ancora oggi a Juan Pinto Durán, avvocato, dirigente della Banca statale, ma soprattutto leader sportivo dell’Università del Cile e tra i principali promotori della candidatura cilena per la Coppa del mondo di calcio del 1962. “Tornate a casa, oggi niente allenamento”, si limita a dire l’allenatore Luis Alamos ai giocatori della Roja. Tra di loro c’è anche Eduardo Herrera, terzino sinistro dei Wanderers di Valparaíso, che alloggia all’hotel Carrera, a un centinaio di metri dalla Moneda. “Lungo la strada i militari mi fermarono una dozzina di volte: riuscii a evitare l’arresto solo perché avevo la borsa con la scritta “Chilean Soccer Team”…”, ricorda.
Herrera e i compagni di squadra, quel giorno, avrebbero dovuto completare la preparazione atletica e sbrigare le ultime pratiche in vista della lunga trasferta transoceanica che li attendeva. Il Regolamento della Coppa del Mondo di calcio, in programma per l’anno dopo a Monaco, prevede infatti la presenza di sole 16 squadre alla fase finale. Due, Germania Ovest e Brasile – Paese organizzatore e campione in carica – erano qualificate di diritto: i restanti 14 posti se li contendevano le 99 squadre che partecipano alle qualificazioni per il Campionato mondiale di calcio 1974. Otto posti all’Europa, 2 al Sud America, 1 a testa all’Africa e ai raggruppamenti Asia-Oceania e Centro-Nord America-Caraibi. L’ultimo biglietto – così vuole il regolamento – dovranno giocarselo in uno spareggio andata-ritorno le squadre vincitrici del gruppo 9 dell’Uefa e del gruppo 3 della Conmebol, la Confederación sudamericana de Fútbol. In Europa, contro la favorita Francia e l’Irlanda, la spunta l’Unione Sovietica, mentre in Sud America – dopo il ritiro del Venezuela, sono solo Cile e Perù a contendersi il diritto allo spareggio intercontinentale. Finisce 2 a 0 per la Nazionale di casa tanto all’andata a Lima, quanto al ritorno a Santiago. Serve dunque una terza partita, che si gioca in campo neutro allo Stadio del Centenario di Montevideo, il 5 agosto 1973, esattamente tre anni prima della morte di Benito Corghi al confine tra le due Germanie. Al 40° Hector Bailetti illude il Perù, ma proprio allo scadere del primo tempo Francisco Valdes pareggia per il Cile che, poco prima del quarto d’ora della ripresa, con Rogelio Farìas mette a segno il gol della vittoria.
A giocarsi l’ultimo posto per la fase finale dei Mondiali del 74, saranno dunque URSS e Cile: partita di andata il 26 settembre allo Stadio Lenin di Mosca. La Roja, l’11 settembre in cui Allende si spara nella Moneda bombardata, sta preparando proprio quella sfida cullando il sogno mondiale, ma il golpe di Pinochet rischia di far saltare lo spareggio. La dittatura militare fa scattare il coprifuoco, tornato drammaticamente di attualità proprio in questi giorni di fine 2019, e decreta che nessuno può lasciare il Paese. Ma il medico della Nazionale cilena di calcio, Jacobo Helo, è anche medico personale del generale Gustavo Leigh, comandante in capo della Forza aerea, l’uomo che ha dato l’ordine ai caccia di alzarsi in volo per bombardare il Palazzo presidenziale. Attraverso di lui, Helo riesce a convincere la Giunta del dittatore Pinochet che la partecipazione della squadra ai Mondiali avrebbe favorito l’immagine internazionale del governo militare del Cile. La Roja può dunque iniziare un lungo, travagliato viaggio verso Mosca, con scali a Buenos Aires, Rio de Janeiro, Panama, il Messico (dove in amichevole battono 2 a 1 gli aztechi), prima di trasvolare l’Oceano fino alla Svizzera, per un altro trionfo sul Neuchâtel Xamax.
Tra un volo e l’altro, il golpe in Cile e la conseguente dittatura sostenuta dagli Stati Uniti diventano – come è inevitabile che sia in un mondo diviso in due blocchi – un caso internazionale. Undici giorni dopo il colpo di stato, l’Unione Sovietica interrompe le relazioni diplomatiche con il Cile, ordina al suo personale diplomatico di tornare in patria e decreta la chiusura dell’Ambasciata cilena a Mosca.
Quando la Roja, peraltro in maglia bianca, il 26 settembre scende sul prato dello Stadio Lenin per l’andata dello spareggio mondiale – dopo un ritiro blindato ed un solo allenamento – il clima è insomma gelido e non solo per i 5 gradi sotto zero, invero inusuali in quella stagione. Carlos Caszely e Leonardo Véliz, due elementi di spicco della Nazionale, sostenitori del governo socialista di Allende, temono per i parenti lasciati in Cile: “Si hablan, sus familias sufrirán las consecuencias”, era stato il chiaro avvertimento della Giunta militare, teso ad evitare qualsivoglia improvvida dichiarazione ‘politica’ da parte dei calciatori.
Breznev in persona ha vietato qualsiasi trasmissione radiotelevisiva di un incontro di cui non deve rimanere traccia; sugli spalti ci sono centomila spettatori, ma solo una manciata di cronisti accreditati della carta stampata. L’Urss – che l’anno prima è arrivato alla finale degli Europei, persa contro la Germania Ovest che avrebbe poi vinto il Mondiale – è la grande favorita. La tattica del ct cileno Luis Alamos è semplice, ma risulterà efficace: defensa radical, difesa radicale. “Giocammo con sei difensori, tre centrocampisti di contenimento (tre “volantes”, come si chiamano in Sudamerica i centrocampisti in onore del mitico Carlos Volante, eccelso centromediano argentino distintosi dagli anni ’20 fino alla prima metà degli anni ’40 anche in Italia, Francia e Brasile ) ed io davanti, solo contro tutti come nel barrio”, ricorda il bomber Caszely, soprannominato “o Rey del metro cuadrado” per la sua abilità nel destreggiarsi negli spazi stretti dell’area di rigore avversaria.
I padroni di casa sono trascinati da un vero fenomeno, l’ucraino Oleg Blochin, destinato a diventare Pallone d’oro nel 1975 e primatista di presenze (112) e gol (42) con la maglia della Nazionale sovietica. Ma a lui pensa “Don Elías” Figueroa, un difensore con alle spalle 7 anni, 214 partite e 2 titoli uruguagi con il Peñarol di Montevideo. Insomma, uno calcisticamente cresciuto a pane e garra charrúa. Al terzo dribbling secco dell’ucraino, “se me salió el uruguayo”, ricorda “Don Elías”. E quando viene fuori l’uruguagio che è in Figueroa, Blochin finisce per volare sulla pista d’atletica dello Stadio Lenin…
Gioco maschio, defensa radical incentrata su un invalicabile 6-3-1 e, sostengono i maligni, la complicità di un arbitro brasiliano noto anticomunista, rendono vani gli assalti sovietici e a Mosca finisce con uno 0-0 che gli osservatori neutrali definiscono unanimemente “poco interessante”.
Tutto si deciderà dunque al ritorno, fissato ben due mesi dopo, il 21 novembre 1973, all’Estádio Nacional di Santiago del Cile. Solo che dal giorno dopo il golpe, mentre la Roja iniziava il suo lungo viaggio verso Mosca, in quello stadio non si gioca più a calcio. La Giunta militare di Pinochet lo ha trasformato in un lager, un campo di detenzione, di tortura e di assassinio dei prigionieri politici.
Così per il Muro di Berlino, anche per le vittime dello Stadio Nazionale di Santiago è difficile fornire cifre ufficiali. Perché il Male lavora sporco e in nero, e tenerne la contabilità è impresa ardua. Si calcola che nei corridoi e negli spogliatoi del Nacional vennero segregati circa 7mila prigionieri politici – 300 dei quali stranieri (si veda Missing, film capolavoro di Costa-Gavras del 1982) – simpatizzanti del governo di Unidad Popular di Allende. Il numero di morti non è mai stato chiarito; il regime ne ammise 38, stime realistiche superano il migliaio.
“Dormivamo nel corridoio che corre sotto le tribunale e collega i vari settori dello stadio, ammassati nell’oscurità. I posti più ambiti erano i gabinetti, perché almeno ci si poteva sedere sulla tazza senza spezzarsi la schiena. Ma quando iniziò la tortura, tutti i luoghi diventarono uguali perché il dolore ti impediva comunque di dormire”, ricorderà nel 2008 a Paolo Condò della Gazzetta dello Sport uno dei sopravvissuti, Alberto “Gato” Gamboa, che era direttore del quotidiano Clarin il giorno del golpe.
La tensione internazionale sale alle stelle, così come cresce l’orrore nel mondo per quanto sta accadendo. L’Unione Sovietica, sostenuta dalla Germania dell’Est e dai Paesi alleati in Asia e Africa, si rifiuta di giocare in uno stadio pieno di prigionieri politici e pretende di disputare il ritorno in campo neutro, chiedendo alla FIFA di verificare le condizioni del Nacional. La Federcalcio cilena propone alla Giunta militare di Pinochet di giocare al Sausalito di Viña del Mar, ma il generale Leigh – sempre lui – è categorico: “Si gioca al Nacional, o non si gioca”. L’obiettivo è quello di sfruttare la partita per mostrare al mondo un volto pacifico del Cile.
Alla fine la FIFA decide di inviare una delegazione composta dal vicepresidente Abilio D’Almeida, brasiliano, e dal segretario generale Helmuth Kaeser, svizzero, per 48 ore a Santiago. Quando D’Almeida e Kaeser arrivano, il 24 ottobre, i militari hanno accuratamente ripulito ogni traccia di sangue e di tortura. Sugli spalti ci sono però alcune migliaia di oppositori, perché lo stadio – è la versione ufficiale fornita dal governo militare – è un centro di verifica per coloro che vengono trovati senza documenti.
“I delegati FIFA visitarono solo il campo, guardandoci da lontano”, racconterà Gregorio Mena Barrales, governatore di Puente Alto, in quei giorni detenuto al Nacional. Per altri testimoni, diverse decine di detenuti erano stati rinchiusi in piccoli camerini, per nasconderli, e minacciati di morte se avessero urlato.
Al termine del sopralluogo, i due ispettori tengono una conferenza stampa con il ministro della difesa, l’ammiraglio Patricio Carvajal, che si presenta con una cravatta e una spilla d’oro con il logo FIFA: “Il rapporto che porteremo alle nostre autorità sarà il riflesso di ciò che abbiamo visto: totale tranquillità”, dicono i delegati FIFA. D’Almeida, il vicepresidente brasiliano, si spinge oltre: ” Non preoccuparti della campagna giornalistica internazionale contro il Cile: la stessa cosa è successa in Brasile, presto passerà…”, sussurra all’ammiraglio Patricio Carvajal.
Ma la polemica, al contrario, non si placa. Mosca continua a protestare, Germania dell’Est, Bulgaria e Polonia minacciano di boicottare la Coppa del Mondo. La Nazionale sovietica, in ritiro, assiste impotente. “Noi volevamo giocare, eravamo disposti a farlo in qualunque posto e in qualunque momento”, dirà in seguito il difensore Mikhaylo Fomenko.
Ormai le relazioni diplomatiche tra Unione Sovietica e Cile, tra blocco dell’Est e blocco dell’Ovest, sono compromesse. La Repubblica Democratica Tedesca arriva a domandare provocatoriamente a Sir Stanley Rous, presidente FIFA, se se la sentirebbe di far disputare una partita a Dachau. Ma per la Federazione internazionale quello che conta è solo il proprio statuto, che all’Articolo 22 prevede che ‘se una squadra non si presenta a un incontro, salvo in caso di forze maggiori e con l’assenso del comitato organizzatore, andrà considerata come sconfitta’.
Ci pensa il Cremlino a rompere ogni indugio a pochi giorni dal match: niente visto, niente viaggio, niente spareggio e, dunque, niente Mondiale per la propria Nazionale. E un durissimo telegramma inviato da Mosca al presidente della FIFA: “Risaputo che a causa di sollevazione fascista deposto governo legale unità nazionale ora in Cile rivela atmosfera sanguinaria terrorismo e repressioni VIRGOLA Stadio nazionale pensato come sede partita trasformato da giunta militare in campo di concentramento luogo di esecuzioni di patrioti cileni STOP Sportivi sovietici non possono al momento giocare nello stadio macchiato di sangue di patrioti cileni STOP”.
E’ così che il 21 novembre, all’Estádio Nacional di Santiago, va in scena quella che l’Unità definirà “una squallida farsa di stampo fascista, la grottesca «festa » voluta dalla «junta » golpista di Santiago per « celebrare » la presunta qualificazione (ottenuta con la complicità della FIFA)”. La Nazionale cilena viene a conoscenza del ritiro dell’Urss a mezzanotte prima dello spareggio. “Per quelli di noi che erano impegnati nella libertà, era una terribile tristezza”, ricorda il bomber Carlos Caszely, militante comunista che solo pochi mesi prima, per le elezioni amministrative, aveva fatto campagna elettorale per il partito di Allende. Avrebbe dovuto segnarlo lui, el gol más triste. Ma non lo farà. “Mentre andavamo al Nacional i parenti dei sequestrati ci fermavano per chiederci di verificare se i loro cari erano nello stadio”, ricorda ancora. Così quando l’arbitro fischia l’inizio della partita e incomincia quell’azione surreale, nel momento in cui la palla gli arriva tra i piedi a pochi passi da una porta tristemente vuota non se la sente di buttarla dentro. Ma nemmeno di calciarla fuori. La passa a Francisco Valdez – anche lui simpatizzante di Allende – lasciando al suo capitano l’ingrato compito di depositare il cuoio in fondo alla rete.
Finisce 1 a 0 e il Cile stacca il biglietto per la fase finale dei Mondiali di Monaco 74, dove finirà nel Gruppo 1 con Gemania Est, Germania Ovest e Australia, collezionando due pareggi (1-1 contro la DDR e un misero 0-0 con gli australiani) e una sconfitta (0-1) contro i padroni di casa e lasciando il segno unicamente per il primo cartellino rosso nella storia dei Mondiali, sbattuto in faccia proprio a Carlo Caszely dopo un’entrata criminale ai danni di Berti Vogts.
La dittatura di Augusto Pinochet finirà solo nel 1990 e soltanto tre anni dopo la vergogna dell’Estádio Nacional, in quel 1976 in cui il camionista reggiano Benito Corghi muore al confine tra le due Germanie, lo stesso dilemma etico si riproporrà nel tennis, quando un perfido tabellone mette nuovamente di fronte Cile e Unione Sovietica in semifinale. Anche in quell’occasione, Mosca si rifiuterà di giocare e il Cile guadagnerà così senza fatica il diritto a contendersi l’insalatiera d’argento contro l’Italia. Proprio in casa e proprio, de nuevo, all’Estádio Nacional. Ma questa è un’altra storia…
(7, continua)
La prima puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti
La seconda puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti
La terza puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti
La quarta puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti
La quinta puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti
La sesta puntata Benito, il comunista ucciso dai comunisti
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