“Che cosa dobbiamo fare?”. Questa domanda se la pongono i contemporanei di Gesù, ma anche noi ce lo chiediamo, con una venatura di sconforto, misurando la sproporzione tra le nostre forze e i problemi del mondo. Eppure, questa domanda è un segno di onestà e di salute spirituale. Infatti, troppo spesso si usa un nome pomposo, “autenticità”, cioè il dare valore esclusivo ai sentimenti, alla loro intensità, con il rischio di far prevalere il nostro egoismo e il rifiuto del sacrificio.
Se ci interroghiamo sul fare, sull’agire, esprimiamo una speranza, che il mondo possa cambiare, che ci sia un’uscita possibile dalla guerra, che ci siano posti dove prevalga la solidarietà. Ma il punto è proprio questo: non si tratta forse dell’illusione di chi non vuol vedere la realtà dei fatti?
La domanda viene rivolta a Giovanni il Battezzatore da persone che vivono una vita normale, ma che sono insoddisfatte, che vorrebbero un cambiamento, al limite,quello di una rivoluzione. La risposta di Giovanni probabilmente non li soddisfa, sembra loro banale e, in fin dei conti, favorevole alla conservazione dello status quo: già, perché Giovanni chiede loro cose che hanno a che fare con la loro professione,. A;gli esattori delle tasse,dice: “Non esigete nulla di più di quello che vi è stato fissato”. Ai soldati, poi dice: Non maltrattate nessuno e accontentatevi delle vostre paghe”. Si tratta di cose apparentemente scontate. Sarebbe come dire oggi: “Pagate le tasse”, “prevenite gli incidenti sul lavoro, curando la sicurezza”, “non litigate nelle riunioni di condominio”. E’ vero, che Giovanni va oltre: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto” (Lc 3,10-14); è possibile però trovare un accomodamento, contribuendo a una delle tante collette del periodo natalizio. Non che si tratti di cose senza efficacia, ma c’è sproporzione tra quello che dice Giovanni o qualche altro moralista, rispetto alle guerre, alle stragi, alle epidemie, al male che ha, oggi, un’evidenza così sfacciata.
Quando ero giovane, negli anni Sessanta e Settanta, volevo anch’io cambiare il mondo. La mia via personale fu quella di fare il prete operaio e di abitare in un quartiere popolare di Reggio. Al sabato e alla domenica, aiutavo don Mario Gasparini, parroco della chiesa dello Spirito Santo. Don Mario è morto questa settimana e al suo funerale c’era il suo popolo, che aveva radunato in cinquantaquattro anni di ministero. La parrocchia era stata istituita nel 1965, ma la chiesa fu costruita anni dopo, e nel frattempo le celebrazioni avvenivano in quello che era stato un fienile, freddissimo, e l’abitazione del parroco era stata ricavata nel pollaio e nella porcilaia della fattoria, che una volta sorgeva in fondo a via Mascagni. Don Mario era una delle persone più buone che io abbia incontrato. Era entrato in seminario da ragazzino e tutto era tranne un rivoluzionario. Questo non vuol dire che non avesse grandi ideali e il desiderio di un’umanità più giusta, più aperta al vangelo. Lui era diventato prete perché in questo aveva creduto e si era speso, sempre con la discrezione, che faceva sembrare naturale il dormire in quello che era stato un pollaio.
Io e lui ci siamo stimati e amati. Lo scopo della nostra vita era lo stesso; diversa la via, per me quella dell’intelligenza, per lui quella dell’amore e dell’umiltà. Ci siamo scambiati i doni che avevamo ricevuto: io ho imparato molto da lui e l’ho invidiato, per la facilità con la quale la sua bontà gli apriva tutte le porte..
Tornando alla domanda, “Che fare?”, mi sono convinto che non c’è nulla di più rivoluzionario del fare il proprio dovere. Infatti, per noi cristiani, la rivoluzione viene dall’alto, la vera novità è un Dio che si fa uomo, nascendo in una stalla e morendo in croce. Però, è importante preparare l’accoglienza. L’immagine bella del Vangelo è quella del servo, che compie fedelmente il compito che gli è stato affidato, ma che tende l’orecchio e invoca l’arrivo del Padrone, che, paradosso dei paradossi, rovescerà i ruoli, cingendo un grembiule e lavando i piedi dei suoi discepoli (Gv 13).
Grazie don Giuseppe
per questo ricordo del suo servizio a Santa Maria degli Angeli e di don Mario, che ha ritratto così bene. Quello che avete fatto ha lasciato un segno profondo in noi giovani di allora, nella stagione illuminata del vescovo Baroni. Segni che restano, quali che siano le vie poi seguite.
Certo che se l’accoglienza la preparano la gran parte dei personaggi che che sono al servizio di istituzioni e media oggigiorno siamo a posto, gente che dispensa odio e ignoranza a piene mani, più che gente , gentaglia con il dollaro al posto del cuore e del cervello.