Don Dossetti: “Quando bastano una buona azione e 80 euro per salvare la vita di un uomo”

Don Giuseppe Dossetti -1

Duecentottava lettera alla comunità al tempo della conversione

E’ probabile che voi, che avete la bontà di leggere le mie lettere, vi aspettiate oggi un commento alle tragiche notizie delle guerre. Cercherò di parlarne, nei nostri prossimi incontri epistolari, ma oggi vorrei dire qualcosa su quello che accade da noi; infatti, un certo rischio di ipocrisia c’è, quando si parla e si formulano giudizi, stando quieti a casa nostra. Se parliamo di pace, dovremmo chiederci se siamo operatori di pace qui dove viviamo. Alcuni episodi che mi sono capitati possono aiutarci ad approfondire il tema.
Qualche giorno fa, arriva nella mia canonica un uomo, malconcio e evidentemente stanco. Mi chiede di essere ospitato, perché non ne può più di dormire per strada. La notte prima l’aveva passata all’ospedale, su una panchina, ma verso le quattro una guardia lo aveva mandato via, suggerendogli di bussare alla porta di san Pellegrino. Di origine lombarda, era stato condannato per furto e aveva scontato l’ultima parte della pena nel carcere di Reggio. Alla scadenza, era stato liberato, ma una volta fuori, senza soldi, non conoscendo nessuno, non sapeva dove andare, anche perché la sua famiglia aveva interrotto i rapporti con lui. Mi sembrava il caso classico di colui che ricade nei reati di prima, anche perché non è accompagnato a trovare un reinserimento.
Così, gli ho dato un po’ di soldi perché si trovasse un letto e l’ho indirizzato all’UEPE, che vuol dire “Ufficio per l’esecuzione penale esterna”. Esso ha competenza per le pene alternative al carcere; avrete sentito parlare dell’affido al Servizio Sociale. Lavorano molto bene, con le risorse limitate che hanno, e si occupano anche dell’accompagnamento degli scarcerati. Così, il mio lombardo è andato in via Paradisi e un’assistente sociale è riuscita a parlare con un cugino, che si è impegnato a dare alloggio al mio protetto. Non potevano però pagargli il biglietto del treno, così ho provveduto io. In tutto, la buona azione mi è costata 80 euro; se Gesù era stato venduto per trenta denari, la vita di un uomo poteva valere ottanta euro. Aggiungo, per la precisione, che i soldi che gli ho dato non erano miei, ma mi erano stati affidati nella colletta domenicale dei miei parrocchiani, anche per questo fine di carità. Il mio contributo è consistito nell’accogliere un uomo, semplicemente perché era un uomo. Non è però vero che tutti gli uomini sono uguali: in Ucraina, Medio Oriente e Africa, la vita di un uomo vale meno del fucile che imbraccia o della bomba che lo dilania.
Dico questo non per retorica, ma perché sono convinto che la pace si costruisce con tanti piccoli gesti, e soprattutto con lo sguardo che rivolgiamo al nostro prossimo.
Lo stesso giorno nel quale mettevo sul treno il piccolo lombardo, un altro incontro mi ha tolto qualsiasi tentazione di compiacimento. Ancora una volta, si è trattato di una famiglia che ha ricevuto lo sfratto, anche se sono in grado di pagare l’affitto; il padrone di casa ha però bisogno di disporre di questa sua proprietà. Papà, mamma e due bimbi rischiano di trovarsi per strada. Preciso che si tratta di italiani e che sono gli ultimi di una serie costante di richieste per trovare una casa in affitto, cosa che a Reggio come in tanti luoghi d’Italia è praticamente impossibile.
Non voglio fare del moralismo e credo che ciascuno debba decidere anche in base alle legittime esigenze; mi chiedo però se non ci sia qualcuno che abbia il coraggio di osare, per venire incontro a quella che oggi è la maggiore necessità, per questa città ricca e bella e con una storia gloriosa: dare un tetto a chi non ce l’ha. La pace, però, comincia dallo sguardo. Nella parabola, c’è un uomo mezzo morto, che giace sulla strada; passa il sacerdote, “lo vide e passò oltre”. Passa il Samaritano, “lo vide e ne ebbe compassione” (Lc 10,29-37).




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