La crisi del governo Facta crea grande confusione in Parlamento e grande incertezza nel Paese. È sufficiente ricordare che tra il 1919 e il 1922 si alternano ben cinque ministeri alla guida del Paese. La violenza fascista intanto dilaga, le sedi dell’Avanti! e quella de La Giustizia sono state distrutte, a Livorno l’anno precedente si è consumata la scissione dei comunisti e il Partito socialista appare gravemente ferito. Il re tentenna, teme Mussolini e non sa cosa fare.
Il I° giugno il gruppo parlamentare del Psi a guida riformista, nell’ultimo disperato tentativo di ricomporre un accettabile quadro governativo e far cessare la guerra civile, dichiara la sua disponibilità ad appoggiare un governo che consenta il ripristino della legalità e la funzione centrale del Parlamento. Turati e compagni cercano in sostanza una soluzione politica alla crisi contando sull’apporto decisivo del Partito popolare italiano di Don Sturzo. A supportare tale coalizione s’oppone però il Vaticano e lo stesso Giolitti che è in rotta con i popolari da quando il segretario dei popolari ha espresso la sua contrarietà ad un suo nuovo incarico. Anche la maggioranza massimalista del Psi rifiuta questa ipotesi politica in nome dell’impossibilità di stringere alleanze politiche con le forze borghesi e cattoliche. Così tutto svanisce.
Tale dichiarazione di disponibilità, in effetti, suscita scandalo nel partito a guida massimalista, che da qualche tempo cerca di rendersi accettabile agli occhi di Mosca e ottenere il pass d’ingresso nella III Internazionale comunista. La Cgil invece con Baldesi e Buozzi esprime la propria adesione al tentativo dei riformisti.
Due sono le condizioni essenziali imposte da Mosca a cui la segreteria massimalista deve sottostare per raggiungere il suo obiettivo: cambiare il nome del partito da socialista a comunista, e cacciare i riformisti.
Quando poi Turati decide di partecipare alle consultazioni reali con l’intento d’illustrare meglio al sovrano la posizione del gruppo parlamentare socialista e ricercare una possibile soluzione alla crisi del governo, la situazione politica interna al Psi precipita. Anche se l’incontro con il re non produce nulla, la resa dei conti interna al partito è già iniziata.
Viene convocato per il 1-4 ottobre 1922 il XIX Congresso nazionale del partito al Teatro del Popolo di Roma per giungere al chiarimento definitivo. Sul tavolo c’è la mozione massimalista di Serrati e Maffi che chiede l’espulsione immediata dei riformisti per aver ipotizzato la collaborazione con i partiti borghesi. Al congresso parlano tutti i maggiori dirigenti nazionali: Serrati (Direttore dell’Avanti!), Domenico Fioritto (segr. del partito), Lazzari, Modigliani, Treves, Turati.
Poiché non tutti i massimalisti sono a favore dell’espulsione dei riformisti, Matteotti, nell’ultimo disperato tentativo di scongiurare la scissione, annuncia il ritiro della mozione riformista e l’adesione al documento di Adelchi Baratono e Ferdinando Cazzamalli, volto a salvare l’unità del partito.
Il voto finale però non lascia via di scampo. I massimalisti raccolgono 32.100 voti, gli unitari 29.119. Gli astenuti sono oltre 10.000. I riformisti sono fuori dal partito. Il commento dell’Avanti! è sintetizzato nel titolo dell’articolo di fondo Liberazione!.
Turati nel suo discorso finale commuove molti delegati, che ora desidererebbero ripetere le votazioni per capovolgerne l’esito.
L’anima storica del riformismo socialista, con voce che non nasconde l’emozione, pronuncia queste parole: “Noi ci separiamo da voi o, forse più esattamente, non vi sembri una sottigliezza, voi vi separate da noi…Noi siamo e vogliamo essere dei realizzatori. Noi non crediamo affatto di dover attendere, per tentare un’azione positiva, il compimento di una rivoluzione da farsi ad un dato momento…Salutiamoci al grido augurale di Viva il Socialismo”, auspicando che questo grido possa un giorno, se sapremo essere saggi, riunirci ancora una volta in un’opera comune di dovere, di sacrificio, di vittoria”.
Il 4 ottobre 1922 gli espulsi si trovano nel salone dell’Università proletaria di Roma e fondano il Partito socialista unitario (Psu), così chiamato per sottolineare l’auspicio di riunire tutti i socialisti che non intendono aderire al comunismo.
Nell’assumere la presidenza del Congresso Prampolini esorta i presenti a continuare i lavori del Congresso del Partito socialista, come a sottolineare che loro erano i veri continuatori della tradizione socialista italiana e che coloro che si erano allontanati erano stati i massimalisti.
Prampolini infine invita i deputati a rimanere al proprio posto e a non dimettersi dalle loro cariche per difendere, dov’era ancora possibile, l’interesse del proletariato.
La Giustizia quotidiana del 5 ottobre pubblicherà un ampio resoconto di quanto accaduto.
Tante sono le adesioni del gruppo parlamentare: Turati, Treves, Modigliani, Matteotti, Prampolini, Gonzales, Caldara, E. Ferri, Morgari, Altobelli, D’Aragona. Subito dopo giungeranno anche le adesioni di Baratono e Cazzamalli. Alla fine confluiranno nel Psu i due terzi del gruppo parlamentare socialista.
Nella Cgil il Psu conta l’adesione anche di Baldesi, Buozzi e Colombino. Come conseguenza della scissione, il sindacato disdice il Patto di Alleanza con il Psi e proclama la sua autonomia da tutti i partiti.
Segretario del Psu viene eletto il giovane Giacomo Matteotti, che pochi ancora conoscono ma che presto inizieranno ad apprezzare.
Vicesegretario è eletto Emilio Zannerini. La Giustizia, con Treves direttore, diventa il giornale ufficiale del partito. Il simbolo è un sole nascente con la scritta “Socialismo” con in alto la parola “Libertà”.
La scissione si rivelerà tardiva e inutile. Tardiva perché non eviterà la vittoria del fascismo e inutile perché non servirà nemmeno ai massimalisti per essere accreditati definitivamente presso Mosca.
Ventiquattro giorni dopo sarà la “marcia su Roma”.
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