Quando il re salvò Mussolini e tradì l’Italia

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Ci fu un momento nei primi anni venti del secolo scorso, nel quale il fascismo si trovò in grave pericolo e il suo Duce poteva essere arrestato. Fu quando, a seguito del rapimento e l’uccisione, il 10 giugno 1924, dell’on Giacomo Matteotti, le indagini avviate dal integerrimo e incorruttibile magistrato Mauro Del Giudice portarono a incriminare una banda di assassini, tutti molto vicini a Mussolini. Il corpo del deputato socialista venne ritrovato solo il 16 agosto, occultato nel bosco della Quartarella a 30 km da Roma.

Il capo di quella banda criminale risultò essere nientemeno che Cesare Rossi, già sindacalista rivoluzionario e ora a capo della segreteria personale del Duce, nonché referente della polizia politica segreta, detta la “Ceka fascista”, nella disponibilità di Mussolini e dedita ad eliminare gli oppositori più irriducibili del regime.

Fra gli artefici e i favoreggiatori dell’assassinio del segretario del PSU, figurarono anche Filippo Filippelli, direttore del Corriere italiano, per aver fornito, con la complicità dell’editore Filippo Nald,i l’auto usata dai rapitori, Amerigo Dumini, noto picchiatore che amava presentarsi come “Dumini, nove omicidi”. A Roma Dumini prestava servizio all’Ufficio Stampa del presidente del Consiglio. Completavano la rosa l’ex ardito Giuseppe Viola, l’altro ex ardito Albino Volpi, Augusto Malacria che guidò l’auto e il reduce Amleto Poveromo, tutti uomini collusi con la Ceka.

A rafforzare la validità della pista seguita con grande intuito e coraggio da Del Giudice si scoprì che le risorse economiche utilizzate dalla Ceka per le sue “missioni” provenivano direttamente da Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista e quindi da Mussolini.
Altro notissimo personaggio coinvolto, seppur indirettamente, per aver coperto il fatto criminoso come capo della la polizia l’attività della Ceka, fu il quadrunviro Emilio De Bono. Il senatore De Bono venne accusato dal giornalista Giuseppe Donati sul Popolo, ma se la cavò con una sentenza di non luogo a procedere, perché secondo lo Statuto Albertino allora vigente, solo il Senato era l’organo competente per giudicare i reati imputati ai senatori.

Mussolini pertanto, essendo gli indagati e i rei confessi, tutti appartenenti al suo più ristretto entourage, non poteva non sapere del delitto, anzi si sospettò subito che fosse proprio lui il vero mandante dell’operazione.

Sta di fatto che sia Rossi che Filippelli, dichiarandosi entrambi innocenti, nel tentativo di salvarsi, misero nero su bianco la loro versione dei fatti in modo d’avvertire, o meglio di poter ricattare i loro possibili accusatori.

Con tutti i partiti democratici d’opposizione sull’Avventino fin dal 10 giugno 1924, la stampa italiana scatenata alla ricerca della verità e l’indignazione popolare, l’esistenza dei due memoriali, che svelavano i nomi degli esecutori e quelli dei, o del mandante, fecero tremare per alcuni mesi il regime e lo stesso Duce.

Con i partiti paralizzati e impotenti, la speranza degli italiani raggiungere i colpevoli e ripristinare la legalità, restava legata al solo magistrato Del Giudice, l’unico a cui sembrava interessare la ricerca della verità dei fatti.

I memoriali di Rossi e Filippelli passarono in molte mani, per finire, grazie al massone Tullio Benedetti, deputato liberale e proprietario occulto del Corriere italiano, in quelle del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, l’avv. radicale Domizio Torrigiani.
Secondo la ricostruzione di Giancarlo Fioretti, una delle più accreditate versioni di quanto accaduto, Torrigiani, dopo aver pensato a lungo come utilizzare al meglio quei preziosi e pericolosi documenti, decise di farli pervenire all’on liberaldemocratico Giovanni Amendola, pure lui massone e politicamente molto vicino, perché li utilizzasse al meglio.

Amendola che ormai aveva abbandonato la speranza di una sollevazione popolare per destituire Mussolini, s’era convinto che la strada migliore era il coinvolgimento diretto del re, l’unico in grado di risolvere la delicata situazione. Per riuscire nel suo proposito pensò di rivolgersi a Ivanoe Bonomi, già socialista riformista, massone e ora politicamente vicino ad Amendola, più volte ministro e presidente del Consiglio, perché, grazie alle sue buone entrature, ne parlasse direttamente con il sovrano, invitandolo a prendere posizione-

Solo Vittorio Emanuela III, infatti, una volta messo al corrente che i due memoriali prima o poi sarebbero stati pubblicati da qualche giornale, poteva intervenire e dimettere Mussolini. La speranza dei due deputati infatti era quella di convincere il re a licenziare Mussolini e a formare un governo militare di transizione, in attesa di nuove elezioni.

Bonomi condivise l’idea di Amendola e chiese immediatamente d’essere ricevuto dal re. Ai primi del mese di novembre 1924 i due si recarono a colloquio dal sovrano per illustrargli la drammatica situazione politica in cui si trovava il paese.

Gli porsero il memoriale Filippelli e attesero fiduciosi i propositi del re. Qualche istante dopo, il sovrano, che sicuramente era già stato informato dell’esistenza di tale documento, si nascose il viso con le mani e rivolgendosi ai suoi interlocutori disse di “essere cieco e sordo e che i suoi occhi e le sue orecchie erano la Camera e il Senato”. Quindi riconsegnò il documento ai due deputati, senza aggiungere al commento o prendere alcun provvedimento.

Da quel momento Mussolini capì di poter superare indenne la profonda crisi di credibilità in cui era precipitato, scatenò la guerra contro i massoni per aver ordito un complotto ai sui danni, ridusse alla definitiva irrilevanza gli aventiniani, preparò ulteriori provvedimenti che nel volgere di pochi mesi portarono allo scioglimento di tutti i partiti. Iniziò così il vero e proprio regime fascista.
Il memoriale di Rossi fu poi pubblicato dal giornale Il Mondo di Giovanni Amendola, mentre quello di Filippelli dalla rivista antifascista Non Mollare, diretta da Carlo Rosselli.

Torrigiani, costretto all’esilio in Francia, venne in seguito condannato a 5 anni di confino, mentre il giudice Mauro Del Giudice fu trasferito per promozione a Catania e successivamente costretto al pensionamento. Giovanni Amendola, dopo diverse aggressioni fisiche da parte di picchiatori fascisti, l’ultima delle quali in località Pieve a Nievole, fu ricoverato a Cannes dove morì il 7 aprile 1926. Ivanoe Bonomi, vigilato e minacciato più volte, si ritirò a vita privata, per assume 1947 la carica di presidente del PSDI fino alla morte avvenuta nel 1951.

Il 24 marzo 1926 si svolse a Chieti, città controllata dai fascisti, il processo contro gli squadristi
Dumini, Volpi, Poveromo che vennero riconosciuti responsabili del rapimento e dell’omicidio e condannati a 5 anni e 11 mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale. Cesare Rossi, dapprima arrestato fu prosciolto in istruttoria nel dicembre 1925 e, dopo molte traversie, processato di nuovo nel 1947 e definitivamente prosciolto. Anche Filippelli fu assolto in istruttoria nel 1925.

Nel 1944, annullata la sentenza di Chieti, si avviò la revisione del processo e Mussolini venne ritenuto il mandante; Dumini e Poveromo furono condannati all’ergastolo, con pena commutata in trent’anni di reclusione. Volpi era morto nel 1939.

Il re, dunque, non volle cogliere la straordinaria opportunità che gli era stata offerta di porre fine al fascismo, salvò Mussolini, ignorò lo sdegno e la protesta degli italiani e tradì l’Italia, avviandola al disastro.




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