Il Comune di Reggio, come di consueto, ha organizzato anche quest’anno un programma di celebrazioni in occasione del 64° anniversario del 7 luglio 1960, per ricordare i cinque operai reggiani – Lauro Farioli (22 anni), Ovidio Franchi (19 anni), Emilio Reverberi (39 anni), Marino Serri (41 anni) e Afro Tondelli (36 anni) – che furono uccisi dalla polizia durante una manifestazione sindacale per il lavoro e per la democrazia organizzata dalla Camera confederale del lavoro in quella che oggi è piazza della Vittoria/piazza Martiri del 7 luglio.
Il programma della giornata, promosso da Comune e Provincia di Reggio, dai sindacati Cgil, Cisl e Uil e da Anpi, Alpi-Apc, Anppia, Istoreco e Comitato democratico e costituzionale, si è aperto in mattinata alle 9.30 al cimitero monumentale di Reggio con l’omaggio alle tombe dei caduti da parte dei rappresentanti istituzionali, sindacali e delle associazioni partigiane.
Più tardi, alle 10.30, in piazza Martiri del 7 luglio è stata deposta una corona davanti al cippo dedicato ai cinque martiri del 7 luglio 1960, alla presenza di gonfaloni e labari istituzionali; è stato poi percorso il sentiero delle “pietre d’inciampo”, posizionate in memoria dei caduti nei cinque punti della piazza in cui le giovani vittime furono colpite a morte.
Alle 11, ai giardini pubblici di piazza della Vittoria, spazio invece agli interventi dal palco del sindaco di Reggio Marco Massari, della vicepresidente della Provincia di Reggio Elena Carretti, di Silvano Franchi (fratello di Ovidio Franchi) e del deputato Gianni Cuperlo.
Il discorso del sindaco Massari
“Perché siamo qui oggi, come ogni anno, a 64 anni di distanza? Siamo qui per ricordare quei fatti luttuosi e per domandarci cosa ci insegna oggi il 7 luglio 1960, cosa c’è di attuale in quella vicenda. Noi abbiamo il dovere della memoria: lo dobbiamo ai famigliari dei caduti, ai feriti, alle centinaia di uomini e donne che quel giorno erano in piazza e furono investiti da una violenza inusitata. Ricordiamolo: quel giorno le forze dell’ordine di allora spararono più di cinquecento colpi in questa piazza.
E rispetto alle recenti dichiarazioni di un esponente politico reggiano (il riferimento è all’appello di pochi giorni fa dello storico esponente della destra reggiana Marco Eboli, ndr), che richiede discontinuità nella memoria di quei tragici fatti, vorrei ricordare tra l’altro che il Centro di documentazione e ricerca storica a cui fa riferimento dorrebbe acquisire materiali anche per approfondire perché e come sono state mobilitate le forze dell’ordine tra il 4 e 7 luglio e con quali ordini, perché, ricordiamolo, ci fu un totale velo di silenzio da parte delle autorità. E ricordiamo che a fronte di 5 morti e di 21 feriti, nel processo furono inquisiti 61 manifestanti e solo due poliziotti.
È una memoria che la nostra città ha coltivato negli anni. È una memoria ufficiale che ha i suoi simboli e i suoi riti civili: il monumento ai caduti posto non a caso a fianco del monumento ai caduti della Resistenza; le cinque “pietre d’inciampo” posate nei punti dove caddero Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Marino Serri, Emilio Reverberi, Afro Tondelli; i cinque rigogliosi alberi che oramai da 15 anni adornano la piazza a cui abbiamo voluto dare il nome di piazza Martiri del 7 luglio.
È una memoria pubblica, dunque, ed è anche una memoria collettiva dei reggiani. Io stesso ho partecipato tante volte a queste celebrazioni: come figlio di un partigiano, anche lui in piazza il 7 luglio 1960, come cittadino e giovane militante politico, come padre quando ho accompagnato i miei figli. Possiamo dirlo: il 7 luglio è identità di Reggio Emilia. Il nome della città è indissolubilmente legato a quello dei martiri del 7 luglio, com’è legato al primo Tricolore e al nome dei Fratelli Cervi.
Nel 2000, in occasione del 40° anniversario, il Comune di Reggio commissionò a Telereggio e a un bravo giornalista, Paolo Bonacini, in collaborazione con Paolo Borciani e altri, un film su quegli avvenimenti. Si chiama “Vento di luglio” e io l’ho rivisto giovedì sera insieme a tante persone grazie a un’opportuna iniziativa dell’Anpi. Accompagnati da quel film, i parenti dei caduti e le autorità della città, guidati dal sindaco Antonella Spaggiari, furono invitati al Quirinale in un’udienza con il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che pronunciò importanti parole di solidarietà.
In quel film ci sono le testimonianze, sofferte, dei parenti delle vittime, che raccontano come questo dolore ha accompagnato le loro vite. Sono testimonianze toccanti che ci ricordano, se ce ne fosse bisogno, che certi fatti, certe ingiustizie, continuano a produrre i loro effetti nel tempo, sono ferite che non si rimarginano. Nel film c’è anche l’intervista a uno dei giovani che erano in piazza quel giorno, Johnny Rovacchi: molti qui se lo ricordano bene. Alla domanda sul perché lui e i suoi compagni non fossero fuggiti di fronte agli spari delle forze dell’ordine, dà una risposta a prima vista sorprendente, in fin dei conti si rischiava la vita. Ma è una risposta che ci spiega qualcosa del perché il 7 luglio sia diventato parte identitaria di questa città.
Cosa dice Johnny? Riassumo a memoria, ma il senso è questo: “Perché avremmo dovuto scappare, non avevamo fatto nulla di male, avevamo ragione noi. Non potevamo abbandonare la piazza, perché la piazza era nostra”. Ecco, la piazza era nostra. Nelle piazze si costruisce il senso di una comunità e di una democrazia. Stare in piazza dunque, manifestare il proprio pensiero, protestare contro qualcosa e qualcuno. Stare in piazza anche a dispetto di capziosi e ingiusti divieti, come nel caso del 7 luglio 1960.
Ci siamo domandati all’inizio cosa ci sia di attuale in questa vicenda: ecco, questo è un primo punto. Il governo di centrodestra, questo governo, si accinge a innalzare in misura sproporzionata le pene per chi manifesta occupando pacificamente un luogo pubblico, una strada, una scuola. Si vogliono colpire forme di lotta, manifestazioni dimostrative. Un’idea ottusa e antica dello Stato che punisce il conflitto sociale. Noi però non dimentichiamo che il conflitto è il sale di una democrazia sana e che le istituzioni democratiche saranno tanto più forti quanto più sapranno misurarsi con i conflitti e sussumerne il senso in conquiste sociali più avanzate.
Vedete, in quel luglio 1960, in quegli anni della fine del decennio Cinquanta, era in atto un grande cambiamento economico e sociale, quello che diventerà il miracolo economico italiano, anche se i lavoratori reggiani ancora non ne coglievano benefici concreti. Si continuava a emigrare in Svizzera o in Francia, i salari erano bassi, nelle campagne c’era ancora la mezzadria e in molte ancora non era stata portata la luce elettrica. C’era il cambiamento, ma c’era anche la continuità di una condizione sociale difficile e la crisi politica del centrismo, da cui scaturì il tentativo del governo Tambroni, che ottenne la fiducia grazie ai voti dell’Msi.
C’era soprattutto la continuità di uno Stato che ancora non era lo Stato disegnato dalla Costituzione del 1948. Era lo Stato dei prefetti, dei questori e dei magistrati che avevano iniziato la propria carriera durante il regime fascista, era lo Stato del codice Rocco. Solo nel 1956 era stata nominata la prima Corte costituzionale, mentre il primo Consiglio superiore della magistratura fu eletto solo nel 1959. È la logica di quel vecchio Stato e di quegli apparati che si muove contro il movimento della primavera/estate del 1960. Perché si tratta di un movimento lungo, iniziato ad aprile con la contestazione dell’appoggio missino al governo di Tambroni e proseguito con la ribellione di Genova alla convocazione del congresso del Movimento sociale nella città medaglia d’oro della Resistenza.
Si parlò allora di nuovo di antifascismo anche se in piazza, a proposito di continuità e cambiamento, accanto a tanti giovani c’erano tanti vecchi partigiani, per usare le parole di Fausto Amodei. Partigiani che avevano poi 35/40 anni, come mio padre. E c’erano i giovani con le magliette a strisce.
Qualcuno, anche a sinistra, forse soprattutto a sinistra, li aveva guardati con sospetto, anche se molti di loro militavano ed erano iscritti ai partiti di sinistra e al sindacato. Un po’ troppo leggeri e spensierati, pensava qualcuno, un po’ troppo americani… A me fa una certa impressione pensare che in piazza arrivò una colonna di motociclisti, un po’ come la Banda Ribelli Motociclisti di Marlon Brando ne “Il selvaggio”. Subito dopo scattò l’aggressione della polizia.
Ecco. Cosa volevano, quei giovani? Certamente non volevano quei fascisti che avevano angustiato la vita dei loro nonni, dei loro padri e dei loro fratelli maggiori. Quei fascisti che avevano bruciato le cooperative e le Camere del lavoro, che avevano incarcerato a centinaia i reggiani che nella clandestinità lottavano contro il regime. Quei fascisti che ci avevano condotto in guerre disastrose e che da ultimo erano stati feroci complici dell’occupazione nazista.
La tradizione dell’antifascismo reggiano aveva formato la coscienza di quei giovani, famiglia per famiglia. Ma quei giovani volevano qualcosa di più per sé, volevano un cambiamento vero della società nella quale trovare un proprio posto nuovo. Sono, secondo me, le premesse dei grandi movimenti giovanili che sconvolgeranno il mondo negli anni Sessanta. C’è stato quel cambiamento? In parte possiamo dire che sì, si è realizzato nei decenni successivi; ma oggi, i giovani d’oggi sono lì, di nuovo, in una condizione di grande incertezza e tribolazione.
Questa promessa di cambiamento è scritta nella nostra Costituzione, che disegna una democrazia inclusiva, fondata sui valori dell’uguaglianza e della solidarietà, sulla conquista e sul rispetto di diritti sociali e individuali inviolabili. Forse non tutti i ragazzi con la maglietta a strisce avevano letto la Costituzione o potevano maneggiarla con la sapienza di un costituzionalista, ma si batterono per questo. Ecco, per venire a cosa ci dicono i fatti del luglio 1960: ci dicono che dobbiamo difendere e realizzare la nostra Costituzione. Proprio adesso che gli eredi di quelli che volevano fare il congresso a Genova provano a svuotarla di senso e di futuro”.
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Tra le iniziative collaterali, nella serata di domenica alle 20 nella sala espositiva di Casa Cervi a Gattatico aprirà l’esposizione “Archivi in mostra. Appunti del Festival”; alle 20.30, invece, La Toscanini Next Trio presenta “Note per la pace”, spettacolo inaugurale della XXIII edizione del Festival di Resistenza, organizzato dall’Istituto Alcide Cervi e da Boorea Emilia Ovest. A seguire: “Un giorno quasi perfetto” di Michelangelo Maria Zarghì, a cura della Compagnia di San Lorenzo.
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