La prima guerra mondiale aveva prodotto un costo altissimo in vite umane e sofferenze sociali. Oltre seicentomila furono i caduti di ogni parte d’Italia, tanto che si stimò che in ogni famiglia si poteva contare almeno un morto. I reduci si erano trasformati in altrettanti disoccupati che vedevano svanire tutte le promesse governative fatte al momento della partenza per il fronte. La vittoria aveva assunto il volto della miseria e della disperazione. Il trionfo della rivoluzione russa e i conflitti sorti nei stati nati dalle rovine degli imperi, alimentavano tuttavia sogni di grandi cambiamenti. Si cominciò a guardare all’internazionalismo proletario come all’unica via d’uscita dalla disastrosa situazione economica provocata dalla guerra. Bisognava fare come in Russia, seguire la strada tracciata dai bolscevichi vittoriosi, dare la spallata finale al capitalistico e realizzare la società socialista.
Nell’affrontare tale situazione il PSI si divise in due: da un lato il partito a maggioranza massimalista, che immaginava possibile l’avverarsi anche in Italia ciò che era accaduto in Russia, d’altro lato la Confederazione del lavoro e il gruppo parlamentare entrambi a guida riformista che negavano quella possibilità, riproponendo la strada più lunga ma più certa delle riforme.
Turati, Treves e Prampolini sostenevano che con un colpo di mano non si sarebbe instaurato il socialismo perché, prima o poi, all’offensiva del proletariato la borghesia avrebbe reagito con ancora più veemenza, facendo pagare un prezzo altissimo ai lavoratori. Le condizioni socio-economiche- politiche non erano, a loro avviso, paragonabili con quelle russe e il salto verso il socialismo si sarebbe risolto in un salto nel vuoto.
D’altra parte Lenin andava sostenendo che fosse necessario fondare una nuova internazionale rivoluzionaria per sconfiggere i socialdemocratici europei. Occorreva tagliare i ponti con i riformisti, considerati funzionali al sistema borghese. Nacque così la Terza Internazionale (Comintern) con lo scopo di difendere la rivoluzione bolscevica e creare le condizioni rivoluzionarie in tutta Europa. La conseguenza inevitabile quindi non poteva che essere l’espulsione dei riformisti dai vari partiti socialisti.
Nella confusione generale si svolse, nell’ottobre del 1919, il Congresso nazionale socialista di Bologna che però approvò l’adesione alla Terza Internazionale con l’assenso anche dei riformisti, nel tentativo di mutare gli equilibri interni al partito. Nemmeno il segretario massimalista Serrati si disse però d’accordo con la loro espulsione e tale convincimento lo espose coraggiosamente al II Congresso del Comintern, nell’estate del 1920.
Tutto ciò coincise con la fase più alta del cosiddetto “biennio rosso”, quando le maggiori fabbriche del paese furono occupate dalle maestranze. Accanto alla esaltazione della valenza politica dei “Consigli di Fabbrica”, creati sul modello sovietico, si ebbero anche importanti ondate di scioperi e forme di lotta anarcoidi con l’unico obiettivo generico di abbattere la società capitalistica.
Lo stato liberale d’altra parte sembrava incapace di far rispettare le leggi e l’ordine pubblico. La presa del potere sembrava ormai a portata di mano e nelle piazze come nelle fabbriche si inneggiava ai soviet, ai consigli di fabbrica e alla dittatura. In realtà solo Turati e il gruppo riformista seppe tenne il punto, giungendo a definire il Soviet una “parola taumaturgica” e la violenza salvifica la tomba del socialismo. Fecero presente che la reazione delle classi minacciate, non solo di quella capitalista, sarebbe stata ancora più violenta e tragica per tutto il movimento dei lavoratori. Inneggiando alla violenza rivoluzionaria e alla dittatura del proletariato si distruggerebbe quindi il socialismo stesso.
A Milano si passò presto dalle parole ai fatti.
Con la fondazione, il 23 marzo 1919, dei Fasci italiani di combattimento da parte di Mussolini, che raccoglievano ex combattenti e arditi pronti a lottare contro i traditori della nazione e specialmente contro i socialisti che la volevano liquidare nel nome dell’internazionalismo bolscevico, lo scontro politico diventò violento, si spostò nelle piazze e produsse i primi morti. Fu il caso, il 13 aprile, quando a Milano si verificarono gli scontri nel quartiere popolare di Isola.
A questo scontro violentissimo seguì l’assalto alla redazione dell’Avanti! che registrò quattro morti, tra cui tre socialisti e un soldato. Turati intervenendo in Parlamento accusò il governo Orlando di aver spalleggiato gli assalitori, lasciando li assaliti soli e indifesi. Turati però era anche a conoscenza che la miseria e la disoccupazione avevano portato a violente azioni perpetuate dai massimalisti e dagli anarchici in diverse località d’Italia. In Emilia-Romagna e in Toscana, infatti, squadre di “guardie rosse” minacciavano non solo gli agrari, ma anche i piccoli proprietari e perfino i mezzadri. Ogni sforzo dei riformisti di pacificare per quanto possibile la situazione risultò però vana.
I riformisti capirono che agendo in quel modo i massimalisti e i rivoluzionari avrebbero gettato nel panico anche i ceti intermedi, esasperando la situazione, fino a portarla al punto di non ritorno.
Tutto il partito sembrava in attesa della rivoluzione, che con il passare dei giorni sembrava però più facile invocarla che realizzarla. Gli ottimi risultati elettorali del PSI incoraggiarono tuttavia a proseguire su quella strada. Ma si trattò dell’ennesima illusione. Quando iniziò l’occupazione delle fabbriche la reazione si era già formata.
Giolitti si pose in mezzo ai contendenti, respingendo la richiesta padronale di schierare l’esercito, impegnandosi a garantire la presenza sindacale nelle aziende. Alla fine, grazie alla determinazione della CGIL a guida riformista, un accordo sindacale, raggiunto con la controparte e l’assenso del governo, con aumenti salariali significativi, fece rientrare gli ardori anche dei gruppi più rivoluzionari.
Il risultato tuttavia fu un PSI profondamente spaccato al suo interno, tanto da risultare maggioritario solo in Emilia e in Toscana, dove ormai i braccianti e i mezzadri rappresentavano i veri punti di forza del partito. Seguirono assalti fascisti alle cooperative, ai sindacati, alle sezioni dei partiti, ai “comuni rossi”, l’assalto ai giornali d’opposizione, gli arresti e i morti, il tutto con la complicità delle forze dell’ordine.
La lotta politica interna tra le varie frazioni che si erano venute formandosi (riformisti, massimalisti unitari, comunisti) nel PSI, portarono nel gennaio 1921 alla scissione di Livorno, alla nascita del PCdI e all’ascesa definitiva del fascismo. Ogni sogno era ormai svanito e la rivoluzione risultava una meta ancora più lontana, se non impossibile da raggiungere.
La strada più breve si rivelò, come sostenuto da Turati e Prampolini, ancora una volta la più lunga e tragica.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]
Continuano gli straordinari successi elettorali dell'area riformista liberaldemocratica,che si ostina a schierarsi sempre indissolubilmente nel campo del centrosinistra senza mai beccare nemmeno un consigliere,cosi' come […]