1921, Prampolini e la scelta dell’astensione

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I primi mesi del 1921 segnarono l’inizio della fine dello Stato liberale e delle garanzie democratiche. La violenza fascista dilagò in tutto il paese, seminando odio, sangue e terrore. L’assalto e la distruzione delle sedi di partito, delle cooperative, delle Camere del lavoro e le forzate dimissioni degli amministratori pubblici socialisti, misero il PSI in grave difficoltà politica, diviso al suo interno non tanto su come reagire alla ventata di violenza fascista, quanto sul se aderire o meno alla Terza internazionale, accettando acriticamente i 21 punti di Mosca. Il desiderio d’imitare i bolscevichi fece perdere di vista il pericolo incombente della perdita della libertà, mentre l’idealizzazione della rivoluzione socialista non s’avvide della reazione capitalistica in atto.
Da qui la scissione di Livorno del gennaio 1921 e la nascita del Partito comunista d’Italia. L’indebolimento del fronte d’opposizione, incoraggiò e favorì di conseguenza lo sviluppo del fascismo, anche nelle zone e nelle città a più forte tradizione e radicamento socialista.

Fu il caso appunto di Reggio Emilia, dove dall’inizio dell’anno si registrò l’assalto e la distruzione delle C.d.L, della redazione de La Giustizia, le dimissioni forzate di molti sindaci e amministratori socialisti, mentre le bastonature contro i socialisti erano all’ordine del giorno. In seguito, purtroppo, sarebbero venuti anche i primi morti.

A fine aprile i fasci reggiani raggiunsero il numero di 17 e molti altri erano in formazione. Tutto ciò convinse Prampolini che il fascismo non poteva più essere considerato un movimento sporadico e passeggero, ma andava combattuto con forme anche nuove di resistenza.
I fatti, secondo Prampolini, dimostravano non solo che il governo era colluso con il fascismo, ma che fosse anche incapace di porre un freno al suo dilagare.

Quando, dunque, furono indette nuove elezioni politiche per il 15 maggio, i dirigenti socialisti si chiesero quale valore poteva avere la scheda elettorale in quelle condizioni?

Prampolini escluse la reazione armata, pur considerandola in quel caso legittima, perché esercitata per legittima difesa, per la manifesta inferiorità del proletariato sul quel terreno di lotta. Allo stesso tempo, per il rispetto sacro che aveva per la vita umana, considerò impraticabile anche la partecipazione al voto. Le violenze e le intimidazioni ai seggi, oltre a provocare scontri e vittime, avrebbero condizionato troppi elettori, falsando di conseguenza l’esito elettorale. Il diritto al voto, insisteva Prampolini, per essere esercitato e rispondere a verità, doveva comprendere anche la libertà di propaganda per tutti i partiti, attraverso la diffusione di manifesti, di giornali e lo svolgimento di pubblici comizi. Non esistendo tali garanzie, le elezioni si sarebbero risolte in un inganno per i lavoratori. Questi ultimi dovevano essere resi consapevoli che per loro non esisteva più la libertà di propaganda, di riunione e di espressione delle proprie opinioni.

 

Per queste ragioni politiche ed etiche, egli si convinse che la scelta migliore fosse quella dell’astensione, almeno per il collegio di Reggio.

Non dunque una astensione generalizzata, ma una drammatica scelta valida solo nelle località come Reggio, dove era impossibile esercitare liberamente l’espressione del voto.
Prampolini, sviluppò le sue convinzioni su La Giustizia settimanale del 1 maggio 1921, nell’articolo “Per intenderci: Niente astensione generale!”. Tale posizione fu esplicitamente condivisa e sostenuta anche da Turati in un telegramma inviato a Prampolini e a tutti i compagni reggiani.
Il Prefetto e un ispettore degli interni, il commissario Secchi, considerata la cattiva immagine che con l’astensione ne avrebbe ricavato il governo, convocarono Prampolini per assicurargli che sarebbe stata garantita la libertà elettorale anche al suo partito.

Anche la direzione nazionale del Psi espresse la sua contrarietà a tale decisione, invitando i compagni reggiani a desistere da tale intendimento. In seguito a quelle insistenze i socialisti di Parma, Modena, Piacenza e quelli di Reggio facenti parte dello stesso collegio elettorale ritornarono sulle loro decisioni e presentarono all’ultimo momento le liste dei candidati.

Rimase fuori quindi solo Reggio, tranne i comuni di Guastalla e Luzzara, appartenenti ad altro collegio, che ottennero comunque un ottimo risultato elettorale.

A Reggio, dove l’astensione fu completa, i fascisti ottennero ovviamente la maggioranza dei consensi, senza però riportare un risultato schiacciante.
Nonostante tale situazione, nel collegio di Piacenza, Parma, Modena e Reggio risultarono eletti sette deputati socialisti.

La condotta dei reggiani portò la Direzione nazionale a sciogliere la Federazione provinciale e a nominare una commissione composta da Bacci, Pilati e Mortara per ricostruire una nuova Federazione.
Il Congresso delle sezioni della provincia, convocato il 19 giugno per discutere il provvedimento della Direzione Nazionale, sostenne la scelta compiuta ed espresse solidarietà a Prampolini. Poi la frattura si ricucì e la Federazione si ricostituì al Congresso del 28 agosto, grazie all’approvazione di una risoluzione di mediazione che riconosceva le ragioni e i torti di tutti. Ma l’unità ancora una volta raggiunta durò ancora per poco tempo.
L’anno successivo le due anime che avevano fino ad allora convissuto a fatica nel partito, quella massimalista e quella riformista, si separeranno definitivamente, dando vita al PSI massimalista di Serrati e al PSU riformista di Matteotti, Turati e Pertini.