Cinquanta giorni dopo la Pasqua, a Gerusalemme era festa. In greco, il cinquantesimo giorno si dice “Pentecoste”. In origine, era la festa della mietitura, ma era poi diventata la festa dell’Alleanza e del dono della Legge sul monte Sinai. Da tutti i paesi circostanti, erano arrivati pellegrini ebrei e simpatizzanti: la moltitudine delle lingue e dei colori, l’animazione del mercato affascinano il visitatore. All’improvviso, però, un tuono potente risuona e la folla si accalca nella piazza centrale, curiosa di conoscere che cosa stia succedendo. Su una terrazza, appaiono alcuni uomini, che si mettono ad annunciare qualcosa di inaudito: quel Gesù, che i Romani avevano crocifisso, su istigazione delle autorità ebraiche, sarebbe risorto; non solo, ma avrebbe compiuto nella sua persona l’attesa di Israele, la nuova ed eterna alleanza tra Dio e il suo popolo. Addirittura, si sarebbe compiuta la profezia di Ezechiele, che aveva preannunciato il dono dello Spirito, di un nuovo principio di vita, la vita “eterna”, l’uomo che diventava figlio, un cuore di pietra sostituito da un cuore di carne.
Nessuna meraviglia, se molti scuotono la testa, pensando a un episodio di ubriachezza molesta. Ma qualcosa non torna: i pellegrini, che vengono da ogni parte del mondo, non hanno bisogno di traduttori, il messaggio viene ascoltato da ciascuno nella propria lingua.
Colui che sembra essere il capo del gruppo, prende la parola: non meravigliatevi, fratelli, ma riconoscete il compimento delle promesse dei profeti. La Legge non è più scritta su tavole di pietra, ma nei vostri cuori, come aveva detto Geremia. Non è più una legge che divide, che separa come un muro chi la osserva e chi no: anzi, tutti gli opposti si riconciliano: come dirà Paolo di Tarso in una sua lettera, “Non c’è più Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché voi siete uno in Cristo Gesù”(Gal 3,28). E’ il momento della grande riconciliazione: la pace ha un nome, quello di Gesù; e ha un prezzo, che esalta la dignità dell’uomo, per il quale viene pagato: il sangue di colui, che osa chiamare Padre il Dio di Israele e che annuncia il perdono per tutti.
Questo messaggio rischia, oggi, di apparire come una bella favola. Certo, tutti aspiriamo alla pace, tutti desideriamo l’unità del genere umano. Ma, per quel che riguarda la via per raggiungerla, non sappiamo andare al di là della potenza, quella militare e economica, o quella tecnologica. Sembra che non possa esserci pace, se non attraverso l’assoggettamento, delle anime, ancora prima che dei corpi.
Possono esistere insieme pace e libertà? Sì, se c’è un principio nuovo nella nostra vita. Il Vangelo lo chiama Spirito Santo. Il Dio di Gesù non è l’impassibile supremo reggitore, ma si coinvolge nella storia umana, perché vuole che l’uomo entri nella comunione con Lui. La pace è questa comunione e contiene una promessa di eternità. Lo Spirito viene chiamato da Gesù “Spirito di verità”, perché introduce in questo mistero e nella sua paradossale, incredibile realizzazione. Infatti, la forma estrema della comunione è proprio quella croce alla porta di Gerusalemme: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”, cioè la vita stessa di Dio (Gv 3,16).
Messe a confronto con quel che accade oggi nel mondo, queste sembrano parole senza senso. Eppure, quanti uomini e donne vi hanno trovato consolazione! La funzione dello Spirito è proprio quella di unire pace e libertà. Lo dice molto bene Paolo, nella lettera ai Galati: “Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà: che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne (cioè per fare i propri comodi), ma mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri” (5,13). Il libero servizio reso agli uomini fratelli ci dona pace e ci fa operatori di pace. Continueremo questo discorso la prossima settimana.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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