Martelli a Reggio cita Borsellino: la magistratura iniziò a far morire Falcone nel gennaio 1988

REGGIO CLAUDIO MARTELLI

di Ferruccio Del Bue

Claudio Martelli sbarca alla Mediopadana quando sono più o meno le 18.08. Il traffico serale che attanaglia anche Reggio Emilia sotto l’orario d’uscita dal lavoro non rallenta l’ex ministro che arriva in piazza Del Monte, nel cuore del centro storico cittadino, rispettando l’orario prefissato.

Martelli sale le scale del Palazzo del Capitano del Popolo, si affaccia sulla soglia della sala dell’hotel Posta, è gremita. L’ex Guardasigilli sorride alla platea, ma lo sguardo è serio, già avvolto e dominato dal pensiero. In questa serata egli è ospite dell’associazione ‘Crea Liberamente’, presieduta dal reggiano Claudio Guidetti, che introduce i lavori, e nel corso della quale, l’ex ministro è chiamato a presentare il suo libro: “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”, intervistato dal direttore di 24emilia, Nicola Fangareggi. Prima che il dibattito abbia inizio, porta il suo saluto anche il sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi. La platea è eterogenea, composta da politici locali di ogni schieramento, da avvocati, magistrati, giornalisti e semplici cittadini.

Sono già trascorsi 30 anni dalla strage di Capaci, nella quale, oltre al giudice martire di Cosa nostra, elevato poi a simbolo dell’antimafia, furono assassinate altre 4 persone (la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta).
Strana coincidenza, ci sono voluti 30 anni anche per prendere chi è ritenuto uno dei responsabili di quella mattanza, il boss stragista Matteo Messina Denaro, un tempo braccio armato di Totò Riina, il capo dei capi della cupola, anch’egli scovato dopo circa 25 anni vissuti da fuggitivo-stanziale in una villa con palme nel centro di Palermo.

Ed è la recente cattura del boss Matteo Messina Denaro, sfuggito per certi versi misteriosamente alle maglie della giustizia per oltre un quarto di secolo, a riportare ancora per una volta d’attualità l’infinita lotta tra Stato e mafia: una sfida dai contorni così sfumati e sfuggenti, tutta ricca di connivenze, appoggi e trabocchetti, da rendere improponibile prevederne una fine.

Tant’è che lo stesso Martelli, il quale nel 1992 fu messo nel mirino proprio dal gruppo mafioso della provincia di Trapani, di cui faceva parte Messina Denaro, intervistato poco dopo l’arresto del capomafia ai vertici della cosca di Castelvetrano, si è detto stupito: “Continuo a interrogarmi su queste latitanze eterne: 30 anni quella di Riina, altrettanti quella di Messina Denaro. Latitanze infinite non trascorse all’estero, in Paesi lontani, ma nella città in cui vivono. Evidentemente c’è ancora la possibilità di nascondersi per tanto tempo. Ecco perché non ritengo ci sia molto da festeggiare. Rimane il fatto che in Sicilia i capi mafiosi hanno potuto nascondersi per 30 anni. Il dubbio che le maglie nel sistema di sicurezza siano troppo larghe, è forte”.

Sono parole che fanno riflettere e che hanno un peso quelle pronunciate dall’esponente socialista, considerando che l’ex ministro è stato un protagonista e al contempo un osservatore privilegiato di buona parte della storia repubblicana.

La storia di Claudio Martelli, personaggio di spicco nella vita politica del Paese, è nota: milanese, attualmente direttore dell’Avanti e scrittore, un passato da docente di filosofia all’Università Statale, fino all’incontro con Bettino Craxi (di cui fu poi considerato il delfino), un passato al Parlamento italiano poi a quello europeo, vicesegretario socialista negli anni Ottanta (autore di un manifesto del socialismo liberale con l’intervento programmatico di Rimini sul merito e il bisogno, correva il 1982), poi vicepresidente del Consiglio e ministro della giustizia: sotto quella veste istituzionale scelse come collaboratore Giovanni Falcone, e con lo stesso magistrato, varò le principali leggi antimafia.

Claudio Martelli narra i fatti esposti sulle pagine del suo libro, rinverdendo la memoria alla platea reggiana, e citando Paolo Borsellino, l’amico più caro: “La magistratura che forse ha più responsabilità di tutti cominciò a far morire Giovanni Falcone ben prima che la mafia lo assassinasse a Capaci”.

E nel suo volume l’ex ministro scrive ancora: “Giovanni Falcone era il più importante, il più capace, il più famoso tra i giudici che hanno combattuto la mafia. Per questo nello stesso giorno in cui fui nominato ministro della Giustizia lo chiamai e gli affidai l’incarico più importante del ministero, quello di direttore degli Affari Penali. La mafia reagì uccidendo prima Falcone poi Borsellino con una violenza terroristica più efferata e rabbiosa di quella armata in precedenza contro i molti giudici, poliziotti, uomini politici che l’avevano contrastata”.

E avverte: “Pur tra tante affinità, la storia di Falcone è diversa da quella degli altri uomini dello Stato che hanno combattuto la mafia perché solo a Falcone è capitato di essere perseguitato in vita non solo da Cosa Nostra, ma anche di essere avversato da colleghi magistrati, dalle loro istituzioni come il Csm e dall’Associazione Nazionale Magistrati, nonché da politici e da giornalisti di varie fazioni. Ancora oggi di quest’altra faccia della luna poco si sa perché poco è stato detto”.