Non ci sono più le mezze stagioni, si dice, adesso sembra addirittura che le stagioni non esistano più: si è fatta campagna elettorale a Ferragosto e ora che è Natale il Pd è impegnato nel congresso più delicato della propria storia. Un congresso nel quale nulla è scontato, compresa la stessa sopravvivenza del partito. Con Luca Vecchi, sindaco di Reggio e responsabile welfare dell’Anci, oggi non parliamo di amministrazione ma di politica. Quella vera, quella che le nuove generazioni forse non hanno mai nemmeno conosciuto.
Sindaco Vecchi, in questi giorni sta accadendo di tutto. L’elenco dei candidati segretari si allunga e le voci di dissenso mettono a rischio il futuro del partito fondato nel 2007, segreteria Veltroni. Lei da che parte sta?
Ho fin da subito dichiarato il mio appoggio a Stefano Bonaccini. Credo sia la personalità più solida e adatta a interpretare il futuro rilancio del Partito democratico. Abbiamo mesi alle spalle difficili, vedo che c’è chi con un eccesso di sarcasmo non vede l’ora che questa storia si esaurisca. Sarà un percorso impegnativo, ma recupereremo giorno per giorno la forza e la credibilità necessaria per essere decisivi nell’opposizione e nella costruzione di un progetto alternativo alla Meloni.
Bonaccini, dicono i detrattori, non ha mai lavorato in vita sua. Sezione, consiglio, assessorato, presidenza della Regione.
Potrei rispondere con Aristotele: “Noi siamo ciò che facciamo ripetutamente, perciò l’eccellenza non è un atto ma un’abitudine”.
Guardi, quotidianamente, c’è qualcuno che si alza e ti spiega a parole come gira il mondo. Siamo quel che abbiamo fatto. Punto. Stefano ha i suoi talenti e, come tutti, le sue debolezze, ma è cresciuto con un percorso non banale, impegnativo. Ha svolto bene il ruolo di presidente della Regione Emilia-Romagna. L’ha fatto in un momento difficile, vincendo nella seconda elezione una partita tutt’altro che scontata . Ha interpretato il ruolo di governatore cercando di unire una comunità intorno a un progetto di governo. Credo che sia la persona più adatta a interpretare l’idea di un nuovo Partito democratico: aperto, plurale, inclusivo e con un progetto di governo che nasca dall’opposizione ferma al governo Meloni.
Gli stessi detrattori contestano quella che considerano la troppo stretta amicizia tra Bonaccini e Matteo Renzi.
La stagione del renzismo è finita. Matteo Renzi da tanti anni è uscito dal Partito democratico per interpretare un nuovo progetto politico. Se vogliamo individuare la strada migliore per il futuro, dobbiamo farlo con la consapevolezza e la responsabilità della nostra storia, dei suoi successi e dei suoi insuccessi, ma guardando avanti, con l’aspirazione a creare un progetto per i prossimi dieci anni.
Una sua opinione riguardo la candidatura di Elly Schlein.
Elly è una risorsa formidabile. Interpreta l’idea di una sinistra più radicale, di movimento. Il processo costituente deve essere vissuto con apertura, per contribuire a fare entrare nuove sensibilità politiche e culturali in grado di aggiornare la cultura politica del riformismo contemporaneo. Elly sono certo darà un grande contributo in questo senso. Aggiungo che trovo significativo che i due principali candidati siano stati insieme alla guida della Regione. Significa in fondo che la vittoria di Stefano nel 2020 ha rappresentato anche l’idea di un partito che sa includere, che si apre a una pluralità di sensibilità con cui costruire un progetto vincente. Oggi, a quell’approccio, a quell’esperienza, si sta chiedendo il contributo fondamentale di rilancio. Significa che ripartiamo da qui, dalla nostra terra, da quel che qui si è saputo fare.
Perché la sinistra, in tutta la sua storia, non è mai riuscita a lasciarsi finalmente governare da una donna?
In realtà la cultura e il pensiero femminile ha condizionato e cambiato ognuno di noi e ha reso il nostro modo di convivere dentro una grande comunità politica un’esperienza più ricca. Il punto di vista delle donne lo potremmo definire nei 15 anni di storia del Partito democratico una delle sensibilità di pensiero più forti e influenti . Le donne non sono state una corrente. Non sono state un gruppo di potere, ma ci hanno cambiato, ci hanno imposto sensibilità importanti. Non se ne faccia solo una questione di leadership e di potere. La differenza la fa il livello di civiltà delle relazioni e la profondità di un pensiero nella costruzione di un progetto politico. Credo che la città di Nilde Iotti abbia tanto da dire in questo senso.
Veniamo alla questione in questi giorni più dibattuta: Pierluigi Castagnetti, storico leader della sinistra cattolica italiana, ha riunito i Popolari che furono e si è spinto addirittura una possibile scissione qualora il Pd si trasformi, come è già di fatto, in una sorta di partito radicale di massa.
Conosco Pierluigi da molto tempo, non appartengo all’area culturale dei cattolici democratici ma non mi pare che il rischio spaccatura sia dietro l’angolo. Piuttosto penso che lui abbia posto una questione di senso assolutamente ineludibile. Il Pd è nato per far convergere il meglio delle tradizioni culturali, riformiste e progressiste, eredi della cultura politica democratica della Prima Repubblica. Dal 2007 a oggi è cambiato il mondo. Oggi lo sforzo da compiere non è una trasformazione, in senso autoreferenziale, definita da un gruppo di saggi del Dna del partito. Sulle fondamenta culturali di una grande casa riformista va aggiornata una linea politica che deve farsi carico delle diseguaglianze inaccettabili, delle criticità ambientali, della condizione di vita del ceto medio produttivo fatto di operai, tecnici, piccoli imprenditori, professionisti, intellettuali e insegnanti. Chi vive di reddito fisso in Italia, vive peggio che in passato. E qui, nella linea politica, più ancora che nel fondamento culturale, che sta il bisogno di svolta.
Il rapporto tra tradizione comunista e tradizione cattolica non è mai riuscito a compiersi nella nascita e nella crescita del Partito democratico. Siete ancora divisi in clan e correnti.
Ma guardi io non credo che il rapporto tra le due tradizioni non sia compiuto. Certo, restano delle sensibilità legate ai percorsi biografici e personali di ognuno di noi, ma la cultura politica è un’altra cosa. Il Partito democratico fu una intuizione giusta, fu l’ambizione di fare incontrare le migliori tradizioni culturali progressiste e democratiche del secolo scorso. La sinistra erede del Pci-Pds-Ds, la cultura cattolica democratica, una parte importante dell’ambientalismo, della tradizione laico liberale di sinistra, il pensiero autonomo di tante donne di sinistra. Non sottovaluterei, al di là dei risultati elettorali recenti, la complessità e la profondità di questo percorso. È oggettivo che il Pd sia stato utile all’Italia, ha esercitato una sua “funzione nazionale”. D’altra parte nell’elettorato, specialmente in Emilia, il Partito democratico ha rappresentato la sintesi ottimale di una sinistra democratica orientata, non alla testimonianza, ma al governo locale e nazionale. E siccome da queste parti si vince quasi dappertutto, beh, insomma, non mi pare che si giustifichino facilmente certi giudizi definitivi.
Reggio Emilia appare nelle carte sempre più come un puntino rosso e solitario in un’Italia di tutt’altro colorata. Non le sembra che sarebbe ora di ridisegnare una micro-realtà, ancorché ricca grazie a imprese e lavoratori, che inizia a dare di sé un profilo di zimbello, brava nel lodarsi ma sostanzialmente richiusa in se stessa e nei propri consunti miti?
In tutta franchezza non mi pare che possa definirsi zimbello un partito e chi da queste parti, nonostante tutto, continua a vincere le elezioni. C’è un problema anche di rispetto a decine di migliaia di elettori che considerano il Pd un punto fondamentale di riferimento. Ci sono culture politiche che nel secolo scorso hanno rappresentato storie importanti, non hanno saputo rinnovarsi di fronte alle difficoltà e sono scomparse. Nel mio lavoro quotidiano faccio sempre mia una regola. Nei giorni di bufera io esco dal Municipio, frequento i luoghi della vita comune, parlo e ascolto, e lì, ritrovo la forza. Ecco questa è la differenza tra un atteggiamento elitario e un approccio popolare. Le culture politiche che di fronte alle difficoltà si sono chiuse in senso elitario, sono scomparse. La sinistra esiste in natura, perché è l’aspirazione a una società più giusta, l’ideale di emancipazione, di eguaglianza delle opportunità. Il mondo contemporaneo ci consegna una crisi delle democrazie, una difficoltà della capacità della politica e dei sistemi democratici di correggere le enormi diseguaglianze generate nel funzionamento naturale dell’economia. Serve umiltà difronte alle sconfitte elettorali, serve la determinazione per percorrere una lunga traversata, serve la lucidità di vedere un orizzonte progettuale a cui tendere, ma serve anche che tutti rispettino questo percorso collettivo, perché il suo esito non è utile solo al Pd, è utile all’Italia e al suo sistema democratico.
Se un Bonaccini vincente dovesse proporle un incarico di partito con base a Roma, potrebbe pensare di accettarlo?
Sinceramente mi pare di aver dimostrato in questi anni che non sono persona assetata di incarichi. Faccio il sindaco di una delle più belle, importanti città italiane. Una delle città più progressiste d’Europa. Do il mio piccolo contributo al rilancio della sinistra. Credo stia lì il mio compito.
Sindaco, come valuta l’impostazione del percorso costituente e congressuale?
In tutta franchezza nutro qualche perplessità su come è stato impostato il percorso costituente e congressuale dopo il 25 aprile. Abbiamo un comitato di saggi incaricati di scrivere una carta valoriale che appaiono del tutto scollegati da un necessario processo di popolo, come vorrebbe un vero percorso costituente. Abbiamo i candidati in pista in un percorso che a mio avviso rischia di essere troppo lungo rispetto alle esigenze quotidiane del confronto politico. E abbiamo un gruppo dirigente che agli occhi dell’opinione pubblica appare totalmente delegittimato. È tutta qui la spiegazione del calo nei sondaggi. Siamo rimasti ancorati al 25 settembre e avvitati in un percorso che non genera rilancio politico. Abbiamo bisogno di una svolta. E francamente ne avremmo bisogno anche prima delle primarie. Abbiamo bisogno di una scossa che renda percepibile agli occhi dell’opinione pubblica che ci incarichiamo di costruire una dimensione valoriale e politica alternativa alla visione di Paese della Meloni. Questa grande domanda politica oggi non ha ancora una risposta e io credo che dopo l’elezione del nuovo segretario il processo costituente debba continuare e aprirsi ulteriormente.
Come valuta i primi mesi del Governo Meloni?
Il governo si è caratterizzato per una tale quantità di marce indietro assolutamente incredibili. Il rave, il tetto al contante, gli sbarchi, il pos. Mi sembra l’esecutivo degli annunci e delle marce indietro. Non mi pare abbiano ancora definito un quadro forte di riforme. È un governo che appare aggrappato all’improvvisazione quotidiana, trainato dall’abilità e dalla popolarità del suo premier e facilitato da una strategia troppo debole, frammentata, e poco incisiva di tutte le opposizioni. Tagliano la sanità, azzerano i contributi ai Comuni sulle piste ciclabili, azzerano i fondi a sostegno delle politiche dell’affitto e tanto altro. C’è fin troppa carne al fuoco per fare una opposizione efficace, rigorosa e convincente.
E in questa situazione il Partito democratico appare ancora aggrappato al 25 settembre. Cosa ne pensa?
Il Partito democratico non può limitarsi a una analisi dell’esito elettorale. Il senso del processo costituente ha una sua credibilità se da un esame profondo dei quindici anni del Pd si trovano le ragioni politiche e culturali per generare un fatto nuovo. Non una semplice correzione di rotta, ma un nuovo Partito democratico. Il Pd nei quindici anni che ha alle spalle ha quasi sempre perso le elezioni politiche, ma ha quasi sempre governato il Paese.
Se da un lato siamo stati una sorta di “riserva della Repubblica”, un partito della responsabilità nazionale capace di essere sempre pronto a fare la propria parte nei momenti più critici della storia del Paese, dall’altro questo ruolo ha minato la nostra identità, l’ha resa a tratti non coerente. Abbiamo sostenuto l’agenda Monti e l’agenda Draghi, che non è proprio l’agenda del Pd.
La caratteristica di un partito riformista è quella di continuare ad alimentare una aspirazione di cambiamento. Il Pd, sul piano nazionale, è apparso il partito dell’establishment, un partito che non ha alterato gli equilibri fondamentali del sistema economico e finanziario europeo di cui ha fatto parte. E mentre questo accadeva, mentre ci compiacevamo della nostra responsabilità nazionale, nel frattempo gli ultimi venti anni accentuavano le diseguaglianze, le classi medie si impoverivano, i giovani si trovavano senza una prospettiva di futuro. Lì si è determinata la frattura di credibilità con gli strati popolari. È da qui che nasce una caduta di credibilità delle nostre classi dirigenti. È un paradosso, ma le competenze espresse, talvolta molto alte, hanno pagato il prezzo troppo alto della coerenza.
Un Partito democratico e popolare trova la sua forza nella capacità di far legittimare un progetto dai suoi elettori e dalla capacità di attuarlo generando le riforme necessarie e promesse.
Questo non è accaduto nei territori dove i risultati sono stati ben diversi.
Nei territori non è successo questo. Attenzione: chi pensa che il Pd sia morto non ha capito nulla. Il Pd governa il 70% dei Comuni italiani, quasi 6.000. Piccoli e grandi, città medie, città metropolitane, aree interne. Altro che Ztl.
Perché questo è accaduto? Perché i sindaci e le amministrazioni hanno saputo interpretare i bisogni di innovazione e di protezione delle proprie comunità, perché le migliori politiche pubbliche nei territori le hanno realizzate le amministrazioni di centrosinistra. E perché tutto questo è corso lungo una linea di coerenza. Mi candido con un progetto, da quella legittimazione prendi poi l’impegno a realizzare, riformare e a verificare ogni giorno questa coerenza con le comunità di appartenenza. La forza dei primi cittadini è tutta qui. E quando salta questa linea di coerenza saltano anche i sindaci.
A suo avviso il Partito democratico deve spostarsi più a sinistra?
Noi abbiamo bisogno di consolidare le fondamenta culturali e valoriali di un grande Partito democratico. Storie, culture, sensibilità storiche e contemporanee vanno tenute dentro la logica di un partito plurale, aperto e inclusivo.
Ma poi va definita su alcuni punti fondamentali una linea netta, oggettivamente coraggiosa, e magari a tratti anche capace della forza della radicalità.
C’è stato un equivoco in questi anni. Siamo stati il partito dei diritti civili, ma abbiamo perso per strada i diritti sociali. Cosa sono i diritti sociali? Sono il welfare, la sanità pubblica, che il governo mette in pericolo, sono l’infanzia, la scuola pubblica. I diritti sociali hanno una caratteristica, rispondono a un bisogno concreto delle persone, ed esprimono una idea avanzata dello sviluppo umano. Quel campo di gioco è nostro dobbiamo intestarcelo con forza e radicalità.
Cosa pensa della proposta di aggiungere la parola lavoro al nome del partito.
Penso che, più che cambiare nome, abbiamo bisogno di chiarezza nella linea politica. Il lavoro è ciò che realizza il progetto di vita di una persona. Il mercato del lavoro restituisce nel nostro Paese una frammentazione e una cifra di precarietà che è diventata assolutamente insostenibile. La grande battaglia contro la precarietà del lavoro deve essere una nostra battaglia. E a mio avviso dobbiamo dire due cose che non possono apparire come una bestemmia: il contratto di lavoro a tempo indeterminato è una sicurezza per le persone. Certo non torneremo al secolo scorso, al posto fisso lungo tutto il corso della vita, ma la flessibilità che è necessaria quando diventa precarietà strutturale significa che non c’è più investimento sul capitale umano. È una spirale che impoverisce le vite. Gli stipendi hanno perso potere d’acquisto. Questo campo è il nostro e dobbiamo affrontarlo con coraggio e chiarezza. E poi il rapporto con il sindacato va recuperato senza imbarazzo, nel rispetto delle reciproche autonomie, ma non esiste che un grande partito riformista non abbia un dialogo fecondo con le rappresentanze del mondo del lavoro.
L’Italia riuscirà in un salto di qualità delle politiche ecologiche ed energetiche?
Il Pd deve essere il partito della transizione ecologica. Punto. Va affrontata con il coraggio dell’ambientalismo del Si, ma non possiamo lasciare ad altri la delega e la leadership della più grande domanda di innovazione della contemporaneità.
Tra Conte e Calenda chi sceglie per le alleanze?
Non credo che oggi il tema siano le alleanze. Non ci sono elezioni imminenti. Dobbiamo darci l’obiettivo di essere il riferimento dell’opposizione per il Paese. A noi compete delineare il progetto e la visione dell’Italia diversa da quella incarnata in questo governo. E poi c’è una cosa che a mio avviso e ineludibile. Quando il Partito democratico avviò la sua esperienza, aveva in sé una grande aspirazione unitaria di tante culture, di tante storie diverse. Oggi l’opposizione nel Paese è troppo frammentata. E questa divisione non rende credibile un progetto progressivamente competitivo e alternativo. Dobbiamo tutti, con il pensiero, ambire a qualcosa di nuovo, a una grande e progressiva convergenza progettuale. Il centrodestra non è solo una serie di partiti, ma è un vero blocco sociale. Lo spirito dell’Ulivo è ancora lì a dirci che la prospettiva dell’incontro è la condizione per essere competitivi, per vincere la prossima volta.
Il Pd, con gli alleati di Articolo Uno, è alle prese con uno scandalo corruttivo di proporzioni europee. Si direbbe che la sinistra sia stata sconfitta anche sul campo della questione morale. Che ne avrebbe detto Berlinguer?
Sono rimasto molto colpito da questa vicenda. Io credo che bisogna distinguere due dimensioni. Da un lato ci sono le responsabilità individuali, personali e penali. Ne risponderanno. E francamente credo serva grande rigore e presa di distanza da quanto accaduto. Dall’altro però bisogna riflettere in generale su quali siano oggi i percorsi di selezione delle classi dirigenti, gli strumenti che un sistema politico e democratico dispone al suo interno per prevenire certe situazioni. L’etica pubblica, il disinteresse verso l’impegno sul bene comune, la cultura della legalità, la sobrietà nella vita privata, la consapevolezza che un ruolo di potere e di guida non ti rende onnipotente, ma anzi ti rende necessariamente più rigoroso e responsabile. La società , tutti i partiti, devono farsi delle domande, e dalle loro risposte può derivare un contributo importante in questa direzione.
Dunque pur con le sue autonome valutazioni lei crede che il rilancio ci sarà.
Sì, ce la faremo. Ne sono certo. E in fondo non è utile solo a noi che questo accada. Il Pd tornerà presto al ruolo e alla funzione che merita. Un traversata non è una passeggiata, ma noi siamo gente tosta, esigente, rigorosa, lo sono i nostri elettori, la nostra gente. Reggio Emilia non starà alla finestra, ma darà il suo contributo determinante a questo processo.
Un’ultima domanda. Dopo l’invito, poi declinato per altri impegni dettati dell’agenda di governo, che ha rivolto alla premier Giorgia Meloni per la cerimonia a Reggio del Tricolore il 7 gennaio e la decisione di inviare il sottosegretario Galeazzo Bignami, vi sono state polemiche. Cosa ne pensa?
Ho invitato Giorgia Meloni, con un atto di serietà istituzionale, così come l’anno scorso facemmo con il presidente Draghi, che solo il giorno prima comunicò l’impossibilità sopravvenuta. Nel 2021 intervenne in video il premier Conte, e in questi ultimi anni hanno partecipato alle celebrazioni capi di Stato, presidenti di Camera e Senato. Le più alte cariche dello Stato. Abbiamo sempre celebrato il Tricolore a Reggio Emilia non solo in quanto luogo fondativo, ma perché nella sua valenza unitaria e istituzionale, insieme alla Costituzione, repubblicana e antifascista, è un passaggio fondamentale della costruzione dell’Italia. E a Reggio Emilia, quel percorso verso la Repubblica, la libertà e l’unità del Paese, mosse il primo passo. Sono rimasto sorpreso di come in prima battuta non si sia valutato questo aspetto. Lo spirito istituzionale e unitario con cui Reggio celebra il 7 gennaio tiene dentro a sé quella coscienza democratica che è frutto del contributo e del sacrificio reggiano alla Liberazione, alla Costituzione e alla Repubblica, attraverso l’antifascismo. Per questo, senza personalizzare, ho voluto ribadire il punto fondamentale: l’esigenza di celebrare il Tricolore all’altezza della sua storia. Devo riconoscere che con il governo ne è scaturito, nel seguito dei contatti, un dialogo più costruttivo che ha portato all’individuazione della soluzione da noi proposta.
Mi fa piacere che il ministro Luca Ciriani sia a Reggio il 7 gennaio.
Ultimi commenti
Anche l' Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia .
Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
Diranno, sia a sinistra che a destra, che c'è un disinteresse della politica, in particolare dei giovani, diranno che molti non votano perché pensano che, […]