Centoventesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra
“Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti“: così dice Gesù nel Vangelo (Lc 14,13s).
Siamo in campagna elettorale. È difficile che queste parole possano diventare il programma di un partito. Ma non sarebbe bello che lo fosse? E forse non sarebbe poi così impossibile applicare l’invito di Gesù a una politica che si ispirasse alla solidarietà. Solidarietà vuol dire proprio questo, mettersi accanto ai più svantaggiati, riconoscendo la loro dignità.
La prima conseguenza è certamente l’impegno a pagare le tasse. Questa è la prima ed elementare forma di solidarietà. Congiuntamente si dovrebbe riconoscere che questa crisi sta facendo diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, attraverso forme indecenti di accaparramento e speculazione. Anche la pace diventerebbe più facile, se ci si decidesse a prendere sul serio queste parole: infatti in guerra muoiono, ancora una volta, coloro che sono fuori dalla sala del banchetto.
Potremmo proseguire. Ma vorrei mettere in luce le premesse del discorso di Gesù. Infatti il rischio è di ridurre tutto a un appello alla generosità e all’elemosina. Ma qui c’è molto di più.
Anzitutto, nel Vangelo, non esistono proprietari, ma solo amministratori. Basta ricordare la parabola dei talenti. E san Paolo aggiunge: “Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7). Non si tratta però soltanto di un richiamo alla caducità dei beni terreni, come troviamo nella sapienza di tanti popoli.
A monte del pensiero di Gesù c’è sempre una premessa: la paternità di Dio. I beni della terra sono un dono della sua bontà, di Lui, “che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Chi ne fa oggetto di accaparramento è un ladro, non solo perché defrauda i suoi simili più deboli, ma perché dichiara sua proprietà ciò che non lo è, ma che gli è stato dato in amministrazione, per il bene di tutti.
La seconda premessa è che saremo giudicati. Sappiamo anche su che cosa e come sarà composta la corte. “Avevo fame, e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete ospitato, malato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,31 ss.). L’eventuale capo d’accusa sarà: “Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,45).
Ci saranno i testimoni a carico: “Le vostre ricchezze sono marce… Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre e che voi non avete pagato grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage” (Lettera di Giacomo 5,1 ss.). Per fortuna, ci saranno anche i testimoni a nostro favore: coloro che avremo aiutato. Dice infatti: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9).
Sarebbe importante pensare alla ricompensa finale. Gesù, infatti, esorta a farsi un tesoro in cielo “dove i ladri non sfondano e la tignola non consuma”. Purtroppo ci si pensa poco. Quando incontriamo la morte, protestiamo come se fossimo stati defraudati di un diritto, il diritto all’eternità. È bello, invece, fare nostra la preghiera ultima di Gesù: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. La Chiesa ce la fa ripetere nella preghiera della sera. La morte diventa allora l’incontro di due consegne: Lui si è consegnato a noi e noi gli restituiamo la vita e i doni che ci ha dato.
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Amara e splendida analisi che dovrebbe arrivare alle alte sfere!
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