Vangelo della domenica. Il mio fratello grida

Il Vangelo della domenica

Duecentesima lettera alla comunità al tempo della conversione

Oggi la Chiesa rilegge la pagina del Vangelo, scelta da Papa Francesco nella memorabile sera del ventisette marzo 2020, quando, solo, nella piazza inondata di pioggia, rivolse al mondo parole di consolazione, un mese dopo l’esplosione della pandemia. Una barca è nella tempesta e le forze dei marinai sono soverchiate dalla furia degli elementi. Gesù è a poppa e dorme. L’invocazione che gli viene rivolta è quella che uomini e donne ripetono tante volte anche oggi: “Maestro, non t’importa che siamo perduti, che siamo a un passo dalla morte?” (Mc 4,38).

Il silenzio di Dio sembra confermare il suo disinteresse, o forse addirittura la sua impotenza nei confronti delle sofferenze umane. Tuttavia, a me sembra che questa accusa sia piuttosto ipocrita. Noi pretendiamo che Dio faccia quello che noi non siamo disposti a fare. L’appello dei poveri è rivolto anche a noi: “Non vi importa che noi moriamo?”

Ci sono anche adesso barche che affondano e naufraghi che chiedono aiuto, ma spesso sembra che non interessino a chi potrebbe aiutarli e invece li riduce alle fredde cifre della statistica. La risposta agli appelli, quando è minimamente onesta, è una dichiarazione di impotenza; ma l’appello rimane: “Non ti importa che io muoia?”.

Questo appello sale anche da Gaza e dall’Ucraina. Anche qui, si dice che i morti innocenti sono la conseguenza inevitabile della guerra. Alle “anime belle” si vuole ricordare che la guerra è così, che in guerra si muore. Ma la guerra è il mostro che divora la politica e anche la religione. Bisogna contestare proprio questo legame tra politica e guerra. La guerra non è “la politica portata avanti con altri mezzi”, come diceva nell’Ottocento Clausewitz: la guerra è la fine della politica, e tanto più lo è quanto più dura nel tempo. La guerra in Terrasanta ne è una manifestazione esemplare: le guerre di questi ottant’anni dalla nascita di Israele hanno reso ogni alternativa sempre più difficile e costosa. Ma la via alternativa dev’essere cercata a tutti i costi. Piccoli gesti, come il pellegrinaggio della Chiesa di Bologna con il suo Vescovo, indicano che la politica, se vuole germogliare frutti di pace, deve essere preparata e nutrita da gesti di pace e dalla preghiera.

In Ucraina, la guerra è nata da un terreno infetto. Il veleno ha contagiato le Chiese, che si sono schierate, come nella Prima Guerra Mondiale. Io non vedo la possibilità anche solo di un cessate il fuoco, se le Chiese non si metteranno in ginocchio, insieme, a pregare per la conversione delle coscienze, a cominciare ciascuno dalla propria. La via esiste e se non la vediamo è perché siamo ciechi. Anche a noi Gesù rivolge le parole con le quali rimprovera i suoi discepoli: “Perché avete paura?Non avete ancora fede?”

Non si può rimproverare a Dio di non compiere ciò che noi non siamo disposti a fare. Perché non lo siamo? L’apostolo Giacomo è molto chiaro, nella sua Lettera: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? 2Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra” (4,1s.). In altre parole, pace e giustizia sono il frutto della conversione del cuore, e la conversione deriva dalla preghiera. Chiediamo ai nostri vescovi, a papa Francesco, al Patriarca Kirill, di convocarci, per chiedere luce e coraggio. Dio non deve mutare il proprio cuore, ma noi, il nostro, sì.




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