Putin e Trump a Helsinki

Vladimir Putin è un ritardatario cronico. Tuttavia, come saggiamente osserva Sergio Romano, “se qualcuno osasse ricordargli che la puntualità è la buona creanza dei re, probabilmente Putin risponderebbe che i re non hanno le responsabilità di un presidente russo”.

Le vittime dei suoi ritardi sono molteplici. Praticamente tutti i leader mondiali. Shinzo Abe: attesa di tre ore. Angela Merkel: due ore. Papa Francesco: un’ora e venti. E l’ex presidente ucraino Yanukovich? Quattro ore, alla faccia dell’essere filo-russo. Una volta il segretario di stato americano John Kerry, dopo aver aspettato invano per più di tre ore, decise che sarebbe stato meglio andare a farsi una passeggiata sulla Piazza Rossa.  

 
Tutto ciò per dire che colpisce la precisione svizzera con la quale Putin si è presentato lo scorso 27 giugno all’incontro con il consigliere americano alla sicurezza nazionale John Bolton. Sul tavolo il prossimo vertice Trump-Putin, fissato a Helsinki per il 16 luglio. Se evidentemente i ritardi possono essere una scelta di psicologia politica e il farsi attendere potrebbe denotare sicurezza e un certo senso di superiorità fatto pesare all’interlocutore in attesa, potremmo affermare che la puntualità denoti invece il contrario: la volontà di porre la controparte sullo stesso piano, o addirittura il tradire una vera e propria ansia da prestazione. 
 
Il fatto è che Putin non pare essere proprio il tipo da ansia da prestazione, e dall’altro lato Bolton non appare neppure come il profilo più congeniale al Cremlino. Insomma, ci si sarebbe aspettati una lunga attesa per l’inviato di Trump. Aumentano le stranezze. La biografia, allora: John Bolton, classe 1948, studi a Yale (all’epoca dei coniugi Clinton), collabora con le amministrazioni di Reagan e Bush senior. George W. Bush lo nomina ambasciatore all’Onu. Il mondo lo conosce. Le sue posizioni in politica estera sono estremamente aggressive. Sostenitore feroce della guerra in Irak, è forse il più falco tra tutti i neoconservatori ancora in circolazione. La Bbc lo definisce pacatamente “un neocon imbottito di steroidi”. 

 

 
John Bolton è ostile all’Iran. Nel 2015 scrive un articoletto dal titolo scarsamente enigmatico “Per fermare la bomba dell’Iran, bombardiamo l’Iran”. Dopodiché Bolton è anche ostile alla Corea del Nord, per cui il suo pensiero su Pyongyang si potrebbe facilmente dedurre sostituendo nel suddetto articolo la parola “Iran” con la parola “Corea del Nord”. E rispetto alla Russia? Molto diplomaticamente se n’era uscito poco tempo fa con un “le interferenze russe nelle elezioni americane del 2016 sono un vero e proprio atto di guerra”. Per dire. 
 
Quando Donald Trump caccia H.R. McMaster (che a sua volta aveva sostituito Michael Flynn) e mette al suo posto John Bolton, le cancellerie di mezzo mondo vanno in fibrillazione per l’arrivo di un falco di tal portata. E con l’Iran? E con la Corea? E con la Russia? Ma soprattutto, stante la distanza ideologica tra Trump e i neocon, il quesito di fondo: Bolton dirotterà Trump o Trump addomesticherà Bolton? Ciò che non viene detto è come neppure McMaster fosse una colomba: voleva 80mila uomini in più in Afghanistan, Trump alla fine gliene manda 4mila. Già questo è un indizio su chi diriga chi oggi a Washington. Secondo indizio: il disgelo coreano e il meeting di Singapore con Kim, avvenuto con Bolton in carica. Infine il prossimo incontro a Helsinki, il primo vertice bilaterale col Cremlino, negoziato proprio da Bolton. Tre indizi. Allora, chi dirige chi?   
 
La scelta di Helsinki non è casuale. Questa era la zona di contatto tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. A Helsinki si incontrarono Ford e Breznev nel 1975 e Bush e Gorbaciov dieci anni dopo. Un po’ come la scelta di Bolton, il nome di Helsinki che richiama la divisione del mondo in due blocchi, paradossalmente, tranquillizza. Chi? Tutti coloro che in Occidente e soprattutto negli Stati Uniti, per i più svariati motivi, temono e osteggiano un riavvicinamento Washington-Mosca. D’altra parte lo stesso inconcludente RussiaGate altro non è che una spada di Damocle posta sulla testa di Trump affinché non si avvicini troppo a Mosca.  Qualcuno, come l’inglese The Times, oggi esplicita senza mezzi termini queste “paure”, avete letto bene, di un disgelo. 
 
   
Ma di che cosa si parlerà nello specifico a Helsinki? Bella domanda. Al momento ci sono solo pronostici. Corea, Ucraina e Siria gli argomenti più quotati, insieme alla Nato, il cui summit si terrà appena una settimana prima a Bruxelles. Tuttavia la sensazione, almeno stando alle parole di Bolton sull’Ucraina “dobbiamo essere d’accordo di essere in disaccordo”, è un’altra, e cioè quella che al centro vi sia proprio il riavvicinamento dei due paesi al di là dei singoli temi divisivi. 
 
Se si prendessero per buoni i rumors secondo i quali sarebbero state consegnate a Bolton informazioni scottanti riguardanti gli ambienti Clinton, in particolare relativamente all’inchiesta “Uranium One” (l’acquisizione da parte della russa Armz della società Uranium One che controlla un quinto della produzione di uranio americana), ci si potrebbe addirittura spingere più in là, parlando di un vertice volto al riavvicinamento, più che dei due paesi, proprio dei due leader attraverso il consolidamento del loro (di Trump, in particolare) potere. 
 
Al di là delle supposizioni più o meno plausibili vi è però una certezza: il brusco ridisegno in atto delle alleanze globali. Alleanze che talvolta, come nel caso americano, tagliano l’interno degli stessi paesi, in una dialettica “multipolaristi (ad esempio Putin e Trump) vs unipolaristi” che si sovrappone ad altre molteplici dialettiche. Una su tutte, l’ormai nota contrapposizione “sovranisti vs globalisti”. Il primo alleato europeo ad incontrare Trump dopo il vertice di Helsinki sarà il premier italiano Conte, il 30 luglio. Noi italiani siamo consapevoli di essere (ancora una volta) nel bel mezzo di un gioco molto più grande di noi?