Fantasia ed emozioni: “Facile”, di Paola Rossato

Nell’ipotetico upgrade di una Divina Commedia 10.0, non mancherebbe il girone dei talentuosi e Paola ne farebbe parte, dannata come tanti per avere un dono.
In un mondo frenetico e dispensatore di urgenze, la goriziana Paola Rossato, con il suo disco d’esordio, "Facile", che facile non è, riesce a regalarci uno spazio sonoro di quiete, di fantasia, di emozioni e di numerosi spunti di riflessione. 
E’ talmente brava che prima della sua opera prima, un atto dovuto dopo anni di attività, ha collezionato in poco tempo, tanti e importanti premi nel panorama cantautorale, poi il vuoto e la necessità di rimanere ancorata a terra per cinque lunghi anni, intimorita dall’idea di fare un disco vero:
<<Come canto nel ritornello della canzone che da il titolo all’album, è più facile tenere le distanze che decidere. Spesso si tende a nascondere la testa sotto la sabbia, lo facciamo tutti; vediamo le cose, ma procrastiniamo. Ho atteso tanto, solo perché avevo paura di affrontarlo>>.
 
Una doppietta come "Autori di Testo" al Premio Lunezia; il "Premio Speciale della Critica" e il "Premio Miglior Composizione" al Bianca d’Aponte; un secondo posto al Premio Poggio Bustone; il trionfo ad Oltremusica nel 2012 e poi il Donida nel 2013 e nello stesso anno la vittoria come "Miglior Testo" a Botteghe d’Autore.
E se non fosse stato per il suo produttore, confida – e lo fa ridendo di gusto, perché il produttore dell’album non è altro che lei – probabilmente ci starebbe ancora pensando sù.
<<E’ stata mamma, che simpaticamente mi ha detto: senti, ti do i soldi io, ma fai sto disco perché non ne posso più! E la capisco, dopo anni di "al lupo al lupo" sembrava davvero destinato a rimanere un progetto incompiuto>>.
 
Tredici brani dal gusto pop cantautorale, che spaziano dal folk alle sonorità più moderne, come la sperimentale "Non Dormo", brano sulla frustrazione lavorativa che strizza l’occhio al rap e in cui c’è la partecipazione del rapper Doro Gjat.
 
Mai banali, pregni di sana ironia e delicata spensieratezza, tutti i versi di Paola raccontano il quotidiano attraverso metafore decisamente efficaci: dal "Il fiore col codice a barre", che affronta la spudorata commercializzazione della bellezza, a "È ancora casa", che parla di un esproprio con la stessa delicatezza e semplicità con cui mi chiede quale parola sia meglio tra rimpianti o rimorsi, perché <<le confondo spesso>>.
Li confonde, perché non vuole avere a che fare né con gli uni né con gli altri. Quando le chiedo cosa significa fare un disco come si faceva una volta – affiancata da nomi importanti, da musicisti che hanno suonato e contribuito alla produzione artistica dell’album; come Simone Serafini, Sergio Giangaspero, Ermes Ghirardini, Gianpaolo Rinaldi, Mirko Cisilino – abbassa lo sguardo con un velo di timidezza e le guance si colorano come fossero quelle di una ‘emoji’: 
<<Non è una passeggiata. Io ho provato a farlo nella maniera più professionale possibile, mettendo in gioco tutte le risorse e le capacità che avevo. Soldi, tempo, creatività, passione; mia madre, il mio compagno; un lavoro immane, ma ci tenevo a fare le cose al meglio perché aldilà del desiderio – che è sempre stato quello di fare la cantautrice – esiste il famoso momento nella vita in cui ti guardi indietro e rischi di avere dei rimpianti e io non volevo guardarmi indietro e mordermi le mani pensando a quello che sarebbe potuto essere se avessi provato. Ho imparato a fare le cose facendole, dalla grafica del disco alla scelta dei colori; dal titolo scritto a mano, alla scelta di quanti bollini fare omaggio e quanti vendita. C’è un lavoro enorme dietro la creazione del disco>>.

Facile, che poi facile non è, quindi. Cosa è rimasto di facile ormai?
<<Il titolo non voleva essere un titolo ironico, ma l’ho è diventato. Mi hanno detto che dovevo crearmi un "hashtag" e io non sapevo neanche cosa fosse. Quando faccio i post, adesso, scrivo #facile e poi penso #stafava. No, non c’è niente di facile. Anche i premi, che son piccole conferme, soddisfazioni, e ti danno modo di confrontarti con altri artisti, di capire che non c’è solo quello che passa dai grandi canali di distribuzione, una volta che scendi dal palco non ti lasciano nulla di concreto. Il fatto che io possa piacere o meno a qualcuno è estremamente soggettivo. Non esistono bravure oggettive>>.
 
Dici? Io credo esista un canone e infiniti termini di paragone. Il talento c’è o non c’è, anche se puoi non piacere a tutti. Sono altri i limiti e, a volte, banalmente culturali…
<<Non lo so e non posso dar giudizi, ma vengono spinte canzoni che sembrano fatte senza cuore. La radio è un supplizio. Poi c’è il fattore frenesia, che non digerisco: io amo i boschi, il Sud Tirolo, il silenzio e mi piace che la comunicazione tra le persone sia reale; ho la sensazione che si vada troppo di corsa, che si viva in un mondo di plastica. Una volta c’era il vinile, il caminetto e la gente si piazzava li sul divano e senza distrazione si godeva un disco, lo ascoltava davvero. Nel "mordi e fuggi" generale, la gente non ascolta più. Io ho bisogno di un pubblico di gente di altri tempi, capace ancora di andare a teatro e di ascoltare>>.
 
Un pubblico di altri tempi che magari non conosce il mercato digitale. Allora come fare a fargli capire che quella sera sarai lì, a casa loro; ma prima ancora, come fare per arrivarci, ad esibirsi a teatro?
<<Hai centrato l’obiettivo. Per presentare il disco, ho scelto la mia Gorizia e il palco del Kulturni Dom. Meraviglioso, ma un teatro ha un costo di gestione non indifferente e va riempito. Con un biglietto d’ingresso a 10€ e un centinaio di persone, come posso credere di espandermi. Allora la missione sarà quella di fare piccole cose oggi, che mi permettano di tornare a teatro un domani. Anche se non sarà facile, appunto: se provo ad andare a suonare in una birreria, esco senza gli incisivi; nei bar, qualcuno mi ascolta, ma tanti altri parlano. Le mie canzoni purtroppo vanno seguite, non hanno nulla di premeditato: io prendo la chitarra e viene fuori questa cosa qui; non sono commerciale, sono "musicale">>. 
 
E sulla falsa riga dell’AgricolTour di Marco Mercante, per tornare un giorno a teatro intanto Paola medita un LetteraTour nelle librerie, nelle biblioteche, nelle rassegne di quadri: <<Perché la gente, in questi casi, arriva con il cuore spalancato>>.
Una voce e una penna che si sono formate sulle parole dei più grandi – da Guccini a Gaber, da De André a De Gregori – e il sogno d’incontrare davanti a un pianoforte, un giorno nella vita, Ivano Fossati: <<mi piacciono i cantautori della vecchia guardia; mi piace leggere e mi piace chi si esprime nella maniera corretta; chi riesce a dipingere emozioni con le immagini, chi coglie le sfumature nelle parole>>.
 
Mi incuriosisce L’uomo delle parole: perché ce n’è uno?
 
<<Nella canzone mi riferisco al classico impresario musicale, ma allargo il cerchio, potrebbe essere trasposto anche al rapporto di coppia. Mi è capitato di fare concorsi truffa, dove ti riempiono di parole e ti promettono grandi cose e se vinci ti dicono anche che devi firmare un contratto e che devi sborsare qualche migliaio di euro e che hai il tempo di decidere, sì, il tempo di una sigaretta. E alla fine, sono ferite. Bisogna avere buon senso, oltre a tante speranze. E’ pieno di uomini che spariscono dietro ad una promessa facile e poi si dimenticano di tornare. Quegli uomini che in amore mirano ad una conquista facile, a farsi solo la serata>>.
 
Canti del tuo "tempo perfetto": ci accorgiamo sempre che lo era quando é troppo tardi? E’ sempre così? 
 
<<Stavo facendo piano bar, da sola, in un locale a Gorizia e non mi filava nessuno quella sera. Ero tutta impegnata a cantare delle cover. Dal punto in cui suonavo riuscivo a vedere la porta d’ingresso e anche il numero del civico del palazzo oltre la strada, il civico 7. Ero "rumore invisibile", come canto nella canzone. Mi sembravo quasi di troppo e a tratti disturbante. Ho fatto tanti anni di intrattenimento musicale, matrimoni e addirittura sagre, come cantante di liscio: non ce n’è, ti senti sempre una specie di poster in movimento. Il tempo perfetto, quindi, è quello in cui ho realizzato che riuscivo a stare con me senza preoccuparmi degli altri; quando ho cominciato a vivere la bellezza del momento a prescindere dalla situazione. A me cantare piace molto e dovevo cominciare a godermela comunque e dovunque>>.
 
E ridendo di gusto racconta di quando una sera, in un Casinò era impegnata a scivolare dentro le canzoni, per interpretarle al meglio e poi si è accorta che tutti la guardavano solo perché alle sue spalle c’era un mega schermo su cui stava andando in onda un incontro di box. O ancora quando: <<stavo cantando con tutta l’anima un pezzo struggente e all’improvviso un tizio si avvicina e mi chiede in dialetto se "go anca" le canzoni triestine. Ho messo da parte l’orgoglio e ho cominciato a far quelle. Tutto fa scuola>>.
 
Tu "e la collina" e la scarsa comunicazione tra le persone, che a volte nasce e muore nella mera formalità di un "Come va?". Qual’è il posto dove ti senti davvero a casa, Paola?
 
<<I boschi, quelli seri, quelli a 1500 metri. Il Sudtirol, Braies. Mi sento persa a Milano e in generale in tutte le grandi città: la frenesia e quel grigio intorno che rischia di scivolare anche dentro e di creare il vuoto interiore.  In posti così, mi sento come Heidi a Francoforte, smarrita. Cammino e sbarro gli occhi, guardo i palazzi e mi sento piccina. Io e la collina, vedi, io sono così, io sono questa cosa qui>>.